Il mobbing è un fenomeno molto diffuso nel mondo del lavoro, ma è ancora poco conosciuto (e riconosciuto nelle aule di giustizia) nell’ambito militare. Molte vittime di mobbing nelle Forze Armate non riescono a far valere i propri diritti perché difficilmente riescono a dimostrare quanto subito. Il Consiglio di Stato, con una recente sentenza, ha confermato una sentenza del TAR in favore di un ufficiale dell’Arma dei carabinieri vittima di ritorsioni nell’ambiente lavorativo.

Il ricorrente, Maggiore dell’Arma dei carabinieri, ha proposto il ricorso di primo grado, dinanzi al T.A.R., per l’accertamento di comportamenti mobbizzanti e vessatori subiti all’interno dell’ambiente lavorativo e per la condanna del Ministero della difesa al risarcimento dei consequenziali danni patiti.

Il T.a.r. adito ha accolto in gran parte il ricorso e ha condannato l’amministrazione al pagamento, in favoredell’ufficiale, delle spese di lite, liquidate in euro 2.500, oltre agli accessori di legge.

In particolare il T.a.r. ha poi così motivato la propria statuizione: «Premette il Collegio che il c.d. mobbing consiste “… in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o da parte del suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo” (cfr.: sentenza n. 359/2003 della Corte Costituzionale).

Come precisato anche dal Consiglio di Stato, “per mobbing deve intendersi una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica e con l’ulteriore conseguenza che, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro, va accertata la presenza di una pluralità di elementi costitutivi, dati:

a) dalla molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio;

b) dall’evento lesivo della salute psicofisica del dipendente;

c) dal nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore;

d) dalla prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio”

Il TAR ha evidenziato che l’Amministrazione convenuta si è limitata a contestare l’effettiva sussistenza di un intento persecutorio con riguardo alla vicenda dei trasferimenti d’ufficio cui il ricorrente è stato sottoposto, poi annullati sia in autotutela che in via giurisdizionale, mentre non ha contestato la sussistenza delle ulteriori, numerose, condotte poste in essere nei confronti del ricorrente dai suoi diretti superiori.

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L’Appello del Ministero della Difesa

Il Ministero della Difesa ha dedotto, in estrema sintesi, che non vi sarebbe e che, in ogni caso, non sarebbe stata provata una finalità vessatoria nei confronti del Maggiore, non essendovi concreti riscontri di un clima a questi ostile, peraltro asseritamente poco credibile, stante il coinvolgimento di numerosi ufficiali dell’Arma dei carabinieri nell’adozione dei provvedimenti censurati, sicché sarebbe plausibile che la vicenda possa inquadrarsi nell’ambito della fisiologica dialettica interna all’amministrazione, che, tuttavia, non si sarebbe spinta oltre i limiti della normalità.

La sentenza del Consiglio di Stato

Dalla documentazione in atti emerge palesemente – sottolinea il Consiglio di Stato – che tutte le problematiche lavorative subite dell’interessato hanno avuto inizio con la legittima esecuzione, da parte di questi e su delega del Procuratore della Repubblica, di un’indagine a carico di un suo superiore gerarchico (colonnello e comandante provinciale dei carabinieri) e sono terminate con la sua assegnazione ad un servizio esterno alla linea di comando dell’Arma dei carabinieri (presso il Ministero dell’interno).

Il Consiglio di Stato sottolinea che la sussistenza del mobbing è sottoposta ad una prova rigorosa, al fine di evitare l’accoglimento di domande pretestuose; cionondimeno, nel caso di specie siffatto fenomeno è emerso in modo sostanzialmente inconfutabile, sia sul piano fattuale (l’insieme di condotte commissive e omissive, in gran parte illegittime o comunque defatigatorie poste in essere dall’amministrazione militare in danno dell’odierno appellato), sia sul piano teleologico, giacché le predette condotte appalesano con un elevatissimo grado di probabilità logica e razionale una finalità ritorsiva, espulsiva e umiliante che tutte le avvince.

I fatti

Un Maggiore dell’Arma dei carabinieri, con una carriera connotata da caratteri di eccellenza, formalmente cristallizzati nel tempo, da incarichi d’indubbia rilevanza (anche all’estero), e costellata di encomi, a seguito dell’espletamento di un’indagine (nell’ambito delle proprie competenze e su delega del Procuratore capo della Repubblica), ha svolto accertamenti su un suo superiore gerarchico rivestente il grado di colonnello, il quale verrà poi attinto da provvedimento cautelare personale restrittivo e poi, con sentenza del giudice per le indagini preliminari, assolto in parte perché il fatto non sussiste e in parte prosciolto per estinzione dei reati ascrittigli per intervenuta prescrizione.

Dopo tale episodio, il Maggiore, subisce dai propri superiori – e in particolare da un generale – una lunga serie di pretestuose vessazioni (reiterati dinieghi di accesso documentale, ritardo nella trasmissione agli uffici competenti di una sua istanza per l’anticipazione delle spese legali, propalazione di elementi riservati pertinenti l’attività di indagine, denunce all’Autorità giudiziaria da parte del generale ai suoi danni, procedimenti disciplinari attivati e poi abbandonati, la sanzione del rimprovero, annullata in autotutela, il peggioramento delle valutazioni caratteristiche a fronte di apprezzamenti da parte del Procuratore della Repubblica, esposti anonimi da cui sono derivati procedimenti penali conclusisi con l’archiviazione, concretizzatesi anche in alcuni provvedimenti (tre schede valutative, per gli anni 2007, 2008 e 2010, due provvedimenti sanzionatori e un trasferimento per incompatibilità ambientale) annullati in via definitiva dal giudice amministrativo con diverse sentenze passate in giudicato e in due dinieghi di accesso (tra i tanti) superati da due pronunce della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, non collocabili nell’area della casualità per la loro quantità, la loro connotazione estremamente invasiva e il loro succedersi in lasso temporale non troppo ampio. Detto quadro è cessato con il trasferimento dell’interessato presso la Direzione centrale di polizia criminale del Ministero dell’interno.

È dunque palese – sottolinea il Consiglio di Stato – che nella fattispecie in esame vi sia stata una ritorsione nei confronti di un ufficiale dei carabinieri effettuata da alcuni suoi diretti superiori, a cui non può che seguire la dichiarazione di responsabilità dell’amministrazione per violazione dell’art. 2087 del codice civile e, pertanto, il diritto al risarcimento dei danni subiti dell’appellato (derivati indubbiamente dalla condotta illecita come chiarito in modo condivisibile, e comunque incontestato, dal T.a.r.), nella ragionevole e ampiamente motivata misura perimetrata in primo grado (peraltro non specificamente contestata), mediante il meccanismo di cui all’art. 34, coma 4, del codice del processo amministrativo.

Il Ministero della Difesa è stato quindi condannato anche in secondo grado liquidare le spese quantificate in euro 5mila in favore del Maggiore.

Articolo tratto dal Portale di Informazione InfoDifesa