La svolta nella discussione sulle spese militari al 2% del Pil si è avuta non con la crisi in Ucraina nel 2022, ma con il summit Nato in Galles del 2014, seguito ad un’altra invasione russa dell’Ucraina, quella che portò all’annessione della Crimea . La questione, tuttavia, è sicuramente tornata d’attualità nelle ultime settimane, in particolare dopo il vertice Nato straordinario a Bruxelles della scorsa settimana e dopo che, il 17 marzo, la Camera ha approvato un ordine del giorno annesso al decreto Ucraina che impegna il governo Draghi a destinare una quota pari al 2% del Pil alle spese militari. Questo, stando alle stime del ministero della Difesa, significherebbe passare dai circa 25,8 miliardi di euro l’anno attuali (68 milioni al giorno) ad almeno 38 miliardi l’anno (104 milioni giornalieri). “È chiaro che il momento chiave nell’aumento delle spese in tutta Europa è stato il 2014. Da allora l’Alleanza si concentra su tre punti: cash , capabilities e contributions . Con “cash” si intende il famoso 2% da raggiungere entro il 2024 , le “capabilities” sono gli investimenti per equipaggiamenti pari al 20% del bilancio, “contributions” indica infine l’impegno in missioni Nato all’estero. Settore in cui l’Italia, almeno prima della crisi in Ucraina, era in prima linea con i suoi contributi in Iraq, Afghanistan e altre operazioni”.
Obiettivi delle spese militari: credibilità e stimolo all’industria della Difesa
“Nel corso degli anni l’Italia ha avuto una politica precisa in questo senso”, prosegue lo studioso. “Il ministro Lorenzo Guerini ha ribadito che bisogna investire in difesa per mantenere prestigio e credibilità a livello internazionale . La politica del governo è stata basata anche sulla necessità di tutelare gli interessi nazionali nel Mediterraneo allargato – ma vedremo quanta importanza manterrà quest’area dopo la crisi in Ucraina – e di aumentare la capacità della nostra industria militare ”. Secondo Coticchia, però, l’elemento chiave non è “quanto si spende” – considerato che negli ultimi anni abbiamo visto un + 70% nelle spese per investimenti e un aumento complessivo delle spese militari – ma “come si spende” . “C’è una riflessione ancora limitata sulla strategia e sulla politica estera, gli interessi che andiamo a difendere non sono esplicitati. Per quanto riguarda gli investimenti occorre chiedersi: acquisire armi sì, ma per fare cosa? In tutto questo il controllo del Parlamento sull’acquisizione di armi è ancora molto limitato, come si evince dalla brevità dei tempi di lavoro delle commissioni su questi provvedimenti”, aggiunge l’esperto. Risale infatti al 2012 l’ultima legge volta ad ampliare il controllo parlamentare sulle acquisizioni e sugli investimenti militari . Come spiega una scheda tecnica della Camera dei deputati in materia, la norma prevede che, per i programmi finanziati attraverso gli ordinari stanziamenti di bilancio, lo schema di decreto venga trasmesso dal ministero della difesa alle Camere per l’espressione del parere delle Commissioni competenti . I pareri dovranno essere espressi entro quaranta giorni dalla data di assegnazione ed è previsto che il Governo, qualora non intenda conformarsi alle condizioni formulate dalle Commissioni competenti, trasmetta nuovamente alle Camere lo schema di decreto corredato delle “necessarie controdeduzioni”. La natura emergenziale dei provvedimenti, però, rischia spesso di far contrarre i tempi di approvazione .
Serangelo: “Aumento spese diverso da politica di riarmo”
“Non bisogna commettere l’errore di collegare direttamente l’aumento delle spese militari a una vera e propria politica di riarmo, perché le due cose non vanno necessariamente di pari passo ”, argomenta invece Serangelo. Occorre precisare che al momento non sono stati divulgati dettagli ufficiali sulla destinazione dei fondi aggiuntivi necessari a raggiungere la quota del 2%. È ragionevole pensare che saranno spalmati su vari punti d’intervento nel settore , che vanno dal personale alla ricerca, passando per l’acquisizione di armi vera e propria. “Il famoso 2% riguarderà probabilmente investimenti sul personale. Questo vuol dire implementare il bacino di arruolamento con ufficiali e sottoufficiali. In Italia si dice che ce ne sono già troppi, ma la verità è che soprattutto gli ufficiali sono ampiamente sotto organico. Manca invece la base , come tenenti e capitani che comandano plotoni e compagnie. Questo significa andare a colmare nell’arco di qualche anno tutte queste mancanze, rinnovare i vertici, svecchiare il personale della difesa. Una parte riguarda anche la riserva selezionata, con la possibilità di prendere più personale con competenze specifiche in ambito economico, medico, ingegneristico o delle relazioni internazionali e impiegarlo in maniera più efficiente nella forza armata”, argomenta la studiosa. “Un’altra possibilità di investimento può riguardare l’addestramento, soprattutto dei reggimenti chiamati ad una prontezza operativa tale da poter essere dispiegati rapidamente nei vari teatri di crisi. Più addestramento significa anche una spesa più oculata dei soldi che vengono messi in campo per le missioni militari all’estero . Questo perché, ovviamente, una maggiore efficienza organizzata in territorio nazionale porta a meno sprechi nei teatri operativi: essere più addestrati vuol dire essere più efficienti, più performanti”.
Volontari e impiego civile delle tecnologie
“Il secondo aspetto da considerare è quello dei cosiddetti Wfp1 e in generale dei volontari in forma prefissata. I primi possono essere dispiegati sul territorio nazionale, i volontari in forma prefissata ad esempio di 4 anni possono anche operare all’estero. La cosa importante è che in Italia siano prontamente spendibili non solo in ambito militare, ma anche civile . Per esempio per la questione Covid o per la gestione delle emergenze ambientali. Si tratta, insomma, di un apporto che questi ragazzi possono dare all’intero sistema Paese, in patria e non all’estero”, prosegue Serangelo.
Altro aspetto importante è l’investimento in nuove tecnologie. “Investire in tecnologie per la difesa vuol dire mettere a disposizione fondi che in un certo senso tornano al sistema Paese perché si vanno a stanziare fondi alle industrie della difesa nazionali”, spiega Serangelo. “In secundis, l’avanzamento tecnologico nel campo della difesa viene poi mutuato in ambito civile. È il concetto di dual use , che comporta appunto un avanzamento delle tecnologie spendibili in ambito civile che vengono utilizzate ad esempio dai Vigili del fuoco, dalla Protezione civile. È il caso di sistemi come gli esoscheletri militari, i droni per la ricerca, le tecnologie satellitari” aggiunge l’esperta.
Riarmo, gestione delle risorse e governance democratica
In ultima istanza c’è la questione della politica di riarmo vera e propria. “Non nascondiamoci dietro un dito, è chiaro che una parte importante di questi fondi potrà essere investita in nuovi armamenti veri e propri ”, puntualizza Serangelo. “Un Paese strategicamente rilevante come l’Italia, proiettato nelle relazioni internazionali e con grossi interessi nel Mediterraneo – che non è propriamente una regione stabile – ha interesse ad essere tecnologicamente avanzato nel settore difesa. Anche per un discorso di interoperabilità e per raggiungere gli standard richiesti a livello Nato. Altro aspetto è la tutela dei nostri interessi all’estero, un concetto che non si ferma alla protezione degli asset economici ma anche dei nostri militari nei teatri operativi ”, spiega ancora. “Tutto questo – conclude Serangelo – implica che la difesa punti anche ad una ristrutturazione organica, andando a tagliare quelli che sono gli esuberi e le spese ridondanti . Ci ha provato l’ammiraglio Giampaolo Di Paola, ministro della Difesa durante il governo Monti, mentre durante il periodo di Elisabetta Trenta ha guadagnato centralità il concetto di dual use . È una riflessione fondamentale per razionalizzare la spesa, perché nel momento in cui ci sono più soldi il rischio è che ci siano anche più sprechi”.
Secondo Coticchia, invece, gli investimenti nel personale provocano già un notevole squilibrio nel bilancio della difesa, che dedica a questo settore già il 70% del budget , e il restante 30% ad attività di manutenzione, addestramento ecc. “È in fase di discussione una legge per un ulteriore aumento del personale che andrebbe a intaccare ancora la sostenibilità e l’efficienza dello strumento militare. Una politica in linea con l’esercito ‘da caserma’ tipico della Guerra fredda”, argomenta Coticchia. In generale “in Italia c’è una forte opposizione dell’opinione pubblica nei confronti dell’acquisizione degli armamenti, ma il dibattito viene sostanzialmente messo in un angolo. Gli investimenti sono stati compiuti in linea con le scelte del governo ma il livello di discussione è rimasto molto, molto limitato. Negli anni novanta, sebbene l’opinione pubblica fosse contraria a questo tipo di attivismo militare, l’Italia ha comunque utilizzato lo strumento della difesa per questioni di prestigio e credibilità, con un ruolo di controllo da parte del Parlamento rimasto sempre estremamente limitato ”, conclude lo studioso.