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Chiara Maffioletti per il “Corriere della Sera”
Per Úrsula Corberó, quello che ha trasformato una banda di rapinatori in icone conosciute in tutto il mondo – dal 2017, anno del debutto della Casa di carta , la tuta rossa indossata con la maschera di Dalì è tra i travestimenti più gettonati (e riconoscibili) – è l’immedesimazione. E lì per lì ci sarebbe da preoccuparsi.
Però l’attrice, per tutti Tokyo (è da quando interpreta la tosta malvivente che la sua carriera è decollata) ha le idee chiare e nel presentare la prima parte del capitolo finale della saga, il quinto, disponibile da ieri su Netflix (il volume 2 uscirà il 2 dicembre), spiega: «I nostri sono dei personaggi che all’inizio della serie non avevano nessun potere: si arrabattavano, tiravano a campare. Credo che alla gente piaccia vedere che c’è qualcosa del popolo in loro, vedere come chi non ha niente riesca ad avere una voce».
Ed è tra le pieghe di questo ragionamento che, secondo l’attrice, c’è il messaggio della serie: «Il messaggio è la resistenza: la gente vuole essere ascoltata».
Nei duemila minuti di azione che compongono la Casa di carta , ci sarebbe dunque questo filo nascosto che rende la trama qualcosa che va al di là del thriller. «Mi sono resa conto appena leggevo il copione che questo era un progetto diverso dagli altri – riprende l’attrice – Era qualcosa di così innovativo… in Spagna si è sempre creduto che l’azione venga bene solo agli americani, a Hollywood. È stata una sfida, un rischio. E invece è successo quel che è successo».
La serie è diventata un caso in tutto il mondo. Non ve lo aspettavate? «In tutto il mondo, è incredibile. Non ce lo aspettavamo. Per niente. Ma ha dato a tutti grande soddisfazione». Nel corso degli anni, le riprese sono state fatte in 300 location. Sono stati prodotti seimila lingotti d’oro e stampate un milione di banconote da 50 euro. Un bottino difeso da 275 armi diverse. Numeri enormi, quasi quanto quello dei fan. Dei devoti, più che altro.
«La cosa più strana mi è capitata a Milano – svela Corberò -, durante la promozione di non ricordo quale stagione. All’improvviso vedo un uomo con i pantaloni corti: aveva sulla coscia un tatuaggio enorme con il volto di Tokyo… insomma, la mia faccia sulla sua gamba. È stato il momento più surreale mai vissuto».
Cosa gli ha detto? «”Ma tu sei matto! Perché te lo sei fatto?” e lui mi risposto: “Mi piace tantissimo. Sono venuto solo per mostrartelo”».
Trentadue anni, interpreta Tokyo da cinque e con il suo personaggio sente di avere più di una cosa in comune: «Beh, di certo non ammazzo la gente per strada, però c’è una certa connessione tra me e lei. Sono abbastanza impulsiva, piuttosto viscerale. E mi considero coraggiosa. Ma non quanto Tokyo, ecco».
Anche per Álvaro Morte, per tutti il Professore, le cose sono cambiate parecchio nel tempo.
«È un privilegio, ma la mia vita è cambiata moltissimo – dice -. Ora ho la possibilità di lavorare con persone con cui ho sempre sognato di collaborare». C’è anche una parte non molto piacevole: «Per strada senti sempre: “Guarda, c’è il Professore”. In ogni contesto. Mi hanno chiesto una foto al funerale di mio padre. A volte è davvero difficile. Ma ne è valsa la pena».
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