Il dibattito sulla crisi tra Mosca e Kiev sembra aver trovato il suo ‘lato italiano’ nella questione relativa all’operazione “Dalla Russia con amore”, la missione inviata in Italia durante i primissimi giorni della pandemia di Covid-19. Era il 22 marzo 2020, esattamente due anni fa, ma la questione è tornata di stretta attualità dopo le recenti dichiarazioni in merito di Alexei Vladimirovic Paramonov. La domanda a cui ancora non si è riusciti a rispondere è la seguente: i russi in Italia avevano solo ed esclusivamente propositi umanitari o si trattava di un’operazione di spionaggio e intelligence?
Paramonov, già console a Milano e oggi direttore del dipartimento europeo del ministero degli Esteri russo, in un’intervista all’agenzia Ria Novosti ha parlato di “conseguenze irreversibili” per l’Italia se Roma aderirà al nuovo pacchetto di sanzioni contro la Russia, progettato come risposta all’invasione dell’Ucraina. Nella stessa occasione, Paramonov ha ricordato l’aiuto garantito all’Italia dai russi nel 2020. “All’Italia è stata fornita un’assistenza significativa attraverso il ministero della Difesa, il ministero dell’Industria e Commercio e ministero della Salute della Russia”, ha spiegato in tono sibillino. “A proposito, una richiesta di assistenza alla parte russa fu inviata allora anche dal ministro della Difesa italiano Lorenzo Guerini, che oggi è uno dei principali ‘falchi’ e ispiratori della campagna antirussa nel governo italiano”, ha aggiunto Paramonov criticando in maniera diretta l’esponente dell’esecutivo di Roma.
Gori: “Dai russi aiuto, propaganda o intelligence?”
A sostegno di Guerini si è schierato il segretario del Partito Democratico, Enrico letta, che in un tweet ha affermato: “Il ministero degli Esteri russo piega alla propaganda di guerra anche il dramma Covid nell’attaccare con farneticazioni inaccettabili il ministro Lorenzo Guerini. Il nostro sostegno è ancora più convinto e diventa legittimo dubitare delle reali intenzioni di quelle missioni di aiuto sanitario”. Tuttavia, il primo a rilanciare con forza l’ipotesi che la missione russa in Italia a marzo 2020 sia stata in realtà (o anche) un’operazione spionistica è stato il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori. In un messaggio su Twitter, il primo cittadino ha affermato: “Col senno di poi è inevitabile tornare alla missione russa in Italia della primavera 2020. Sono testimone dell’aiuto prestato a Bergamo dai medici del contingente, ma va ricordato che a Pratica di Mare arrivarono più generali che medici. Fu aiuto, propaganda o intelligence?”. Concetti poi ribaditi anche in un’intervista al Corriere della Sera.
Missione russa in Italia: apparecchiature, pochi medici e molti militari
Ma cos’è successo esattamente a marzo 2020? La missione denominata “Dalla Russia con amore” – chiaro riferimento all’omonimo film del 1963 della saga di James Bond con protagonista Sean Connery – arrivò a Pratica di Mare il 22 marzo con 13 quadrireattori Ilyushin che trasportavano donne e uomini in tenuta mimetica e ben 23 camion. Tra le persone aviotrasportate – 106 in tutto – solo 28 erano membri del personale sanitario. Di questi, poi, solo due erano civili e non militari. Si trattava di Natalia Y. Pshenichnaya, vicedirettrice dell’Istituto centrale di ricerche epidemiologiche di Mosca, e Aleksandr V. Semenov, dell’Istituto Pasteur di San Pietroburgo. Pshenichnaya e Semenov sono due epidemiologi i cui nomi erano stati aggiunti all’ultimo momento – a penna – nell’elenco dei partecipanti alla missione. Lo evidenzia Marco Santarelli, presidente del Laboratorio di Intelligence, Complessità e Comunicazione IC2 Lab.
I russi portavano con sé apparecchiature mediche, ventilatori, mascherine e tute di protezione per il personale medico italiano, insieme a circa centomila tamponi inviati dal ministero della Salute. Inoltre, come molti ricorderanno dalle immagini e dai video diventati virali in quei giorni, i russi utilizzarono anche mezzi per sanificare le strade, gli ospedali e le Rsa. Va precisato che si trattava di un contesto in cui le misure di contenimento del Covid erano ancora piuttosto sperimentali, data l’allora scarsa conoscenza del virus. La sanificazione delle strade, per esempio, è stata una pratica abbandonata nel corso del tempo perché ritenuta effettivamente inutile.
Miozzo: “I russi chiedevano carta bianca”
Altre fonti, tuttavia, lasciano aperta la porta al dubbio che le attività dei russi in Italia non si siano limitate al solo ambito sanitario, e comunque non alle aree maggiormente colpite all’epoca dei fatti. “Avevano un’agenda e chiedevano carta bianca. Volevano bonificare tutta l’area della Lombardia coinvolta. Paradossalmente non era un’idea sbagliata, ma così erano compresi anche uffici pubblici e obiettivi sensibili” spiega al quotidiano Il Messaggero Agostino Miozzo, ex presidente del Comitato tecnico scientifico, raccontando l’incontro con il ministero della Difesa russo in cui venivano definiti i particolari dell’operazione. “Gli abbiamo comunicato che si sarebbero dovuti concentrare su Rsa e strutture sanitarie nella zona più in difficoltà” ricorda Miozzo, ma i russi sostenevano di avere un “accordo politico di altissimo livello” che garantiva loro ampi margini di manovra. L’accordo in questione si riferirebbe a una telefonata intercorsa fra il presidente russo Vladimir Putin e l’allora presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. In altre parole, la delegazione russa pensava di aver mano libera nelle province di Bergamo e Brescia. Un territorio in cui si trova, ad esempio, la base Nato di Ghedi, paesino a un’ora di macchina da Bergamo in provincia di Brescia che ospita una ventina di testate nucleari americane.
Serangelo: “Intelligence sanitaria e propaganda dietro la missione russa”
“Nelle ore convulse della prima fase pandemica del 2020, l’Italia si è trovata priva di protocolli e strategie adeguate a far fronte all’emergenza sanitaria appena iniziata”, spiega ad upday Denise Serangelo, presidente del think tank Analytica for intelligence and security studies. “Viene da sé comprendere come, per la tenuta sociale e securitaria del Paese, fosse necessario l’aiuto esterno al fine di sopperire alle mancanze interne. Il primo vero supporto arrivò dalla Russia” prosegue. “L’apporto del personale sanitario e le opere di bonifica e disinfezione effettuate dalla missione russa fanno sospettare che il rapporto costi/ benefici sia stato a favore dei russi, anzi, sia giustificato esclusivamente da un’opera per lo meno di propaganda, senza contare gli aspetti secondari di intelligence, soprattutto sanitaria. Sembra che il nostro governo abbia garantito un accesso precoce a campioni biologici, dati sanitari, procedure operative e metodi di risposta all’epidemia che non sarebbe stato possibile ottenere in così poco tempo dalle autorità di Mosca”, spiega Serangelo. “Ci sono buone possibilità che la tecnologia dei vaccini a vettore virale, (su cui si basa il vaccino russo Sputnik V) sia stata tarata grazie ai campionamenti e ai dati ricavati dalla missione in Italia, concedendo ai russi una temporanea superiorità tecnologica”, aggiunge.
Una conferma in tal senso sembrerebbe arrivare dal New Yorker, che in un’inchiesta rivela come il Dna di un cittadino russo ammalatosi in Italia sia stato poi usato per elaborare il vaccino Sputnik V. Questa, secondo la rivista statunitense, è la dimostrazione che la missione russa ha avuto accesso a dati e strutture sanitarie in Italia. “Non dimentichiamo – prosegue Serangelo – che il vaccino russo è stato proposto e adottato da Paesi quali Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca, senza contare il tentativo di usare San Marino come ‘cavallo di Troia’ per l’eventuale utilizzo in Italia. Tutto ciò nonostante l’Ema non abbia mai terminato la sua revisione dei dati scientifici e non abbia mai autorizzato il suo uso in Ue”. Insomma, il vaccino usato come leva geopolitica. Una pratica ormai assodata da parte non solo di Mosca, ma anche di Pechino.
Quanto ai possibili scopi “non sanitari” della missione russa, Serangelo afferma: “Ritengo che non ci sia un collegamento reale tra le strutture Nato e l’arrivo in Italia dei russi nel 2020. Queste strutture sono state attentamente monitorate sia dai servizi d’intelligence nazionale che dagli apparati di sicurezza relativi alle basi durante la permanenza dei russi, tanto che a oggi pare che le minacce rivolte a Guerini siano dovute a quest’attenzione sulle infrastrutture critiche, non solo Nato. Accedere a queste infrastrutture già in un clima di normalità risulta complesso, ancora più difficile sarebbe stato farlo quando tutti gli occhi del mondo erano puntati sui russi e sull’Italia”, conclude.
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