Non solo la guerra in Ucraina, ma anche gli effetti di lungo respiro della pandemia da Covid-19. Sono questi i principali motivi dei problemi ancora presenti nelle catene di approvvigionamento globali, che stanno causando ritardi nella consegna dei prodotti che arrivano sugli scaffali dei nostri negozi e nel sistema industriale. Più che in vere e proprie carenze nelle forniture, in Italia queste strozzature possono tradursi in aumenti dei prezzi.
Il caso del grano ucraino, bloccato nei porti sul Mar Nero dalle forze russa, è una rappresentazione chiara di quanto il sistema di forniture internazionali sia fragile. A partire dagli anni Sessanta, la maggioranza dei prodotti scambiati sui mercati globali viene trasportata via navi container. Le ragioni dietro questa scelta riguardano la convenienza e l’economia dell’operazione. Spostare le merci via mare e in grandi quantità costa molto, molto meno di fare la stessa cosa su strada o, peggio ancora, per via area. Non a caso gli studiosi identificano questo momento, l’inizio cioè dei grandi traffici planetari via mare, come l’inizio vero e proprio della globalizzazione e dell’interconnessione tra mercati. Quello delle supply chain globali è un sistema certamente economico, ma non immune da incertezze. Basta che un fattore inaspettato blocchi lo spostamento di merci da grossi hub del commercio estero per creare quelli che in inglese si definiscono chokepoint, in italiano colli di bottiglia.
Flessione dei consumi “no food”
L’Italia, dal punto di vista dell’approvvigionamento alimentare, è sicuramente meno esposta di altri Paesi. Negli Stati Uniti, ad esempio, l’amministrazione di Joe Biden sta affrontando una sfida importante sul fronte alimentare, ossia la carenza di latte in polvere per i bambini. Il fenomeno si deve a due fattori. Da una parte la chiusura di un colossale impianto di produzione in Michigan – dopo la morte di due bimbi che avevano consumato latte contaminato – dall’altra alle strozzature nelle catene di approvvigionamento. La crisi del grano e altri scompensi in campo alimentare – che colpiscono economie più semplici come quelle del mondo arabo e dell’Africa – riguardano solo parzialmente l’Italia. Ciò non toglie che si registrino comunque problemi nell’andamento degli acquisti. Secondo Carlo Alberto Buttarelli di Federdistribuzione, in Italia c’è sicuramente una flessione nei consumi, ma riguarda in percentuale molto bassa i beni alimentari. I dati Istat sulle vendite al dettaglio di marzo, spiega la federazione, rilevano una lieve flessione congiunturale (-0,5%), da imputarsi al calo dei beni non food (-0,8%); stabili, al contrario, rispetto a febbraio le vendite dei beni alimentari.
Colpiti dai rincari 4 italiani su 10
In altri termini, il rischio di vedere scaffali vuoti nei supermercati è relativamente remoto. Più plausibile, invece, l’ipotesi che si allunghino i tempi di consegna – che nell’era di Amazon si sono gradualmente avvicinati al prototipo della delivery in tempo reale – e che i prezzi continuino a fluttuare. La mancanza di fiducia e l’effetto dell’inflazione sui salari potrebbero rendere ancora più debole la vendita dei prodotti. I rincari nel carrello della spesa – che riguardano prodotti come pane, olio, pomodori, e verdure – colpiscono oltre quattro italiani su dieci (il 44% della popolazione). Tanto che – spiega Coldiretti – sempre più persone si dedicano alla produzione in proprio di ortaggi, verdure e biogas. In una sorta di “accorciamento estremo” della supply chain, per evitarne i possibili problemi.
Difficoltà delle famiglie e inflazione
“Il 2022 prosegue nel segno dell’incertezza: il calo delle vendite nel comparto dei beni non alimentari è dovuto a un peggioramento del clima di fiducia delle famiglie italiane, influenzato dalla crescita dell’inflazione e dalle preoccupazioni per le prospettive future generate dall’evoluzione del conflitto in Ucraina”, commenta Buttarelli. “Registriamo ulteriori segnali di peggioramento che indicano che una crisi dei consumi è già in corso, e se si dovesse confermare anche nei prossimi mesi potrebbe avere un impatto sulla crescita del Paese. Per il settore non alimentare, già duramente colpito dalle restrizioni durante la pandemia, e che in molti comparti non ha ancora recuperato i valori pre-Covid, vi è la prospettiva concreta di una ulteriore fase di grande difficoltà, con il rischio di una flessione a doppia cifra a causa del perdurare delle difficoltà delle famiglie”, conclude Buttarelli.
Il blocco dei porti cinesi
La pandemia è stata un momento decisivo nel mettere in luce le criticità del modello di approvvigionamento. Molti ricorderanno, a marzo 2020, il blocco del colossale porto cinese di Shenzen, nella provincia del Guangdong. Il complesso infrastrutturale, che costituisce il porto per container più trafficato e in più rapida crescita al mondo, ospita 40 compagnie di navigazione. Si tratta, quindi, di uno snodo centrale per i traffici internazionali, che negli ultimi mesi ha subito un nuovo stop a causa della nuova ondata di contagi. A marzo, infatti, l’amministrazione di Shenzhen ha disposto la chiusura di tutto il polo tecnologico della città e del distretto business, in un lockdown che ha interessato nel complesso 17 milioni di residenti.
La politica “zero-Covid” e la carenza di chip
Le operazioni nei porti cinesi non sono ancora tornate a pieno regime, e in generale Pechino ha continuato a perseguire la politica “zero Covid”. A differenza di altri Paesi, come l’Italia, che gradualmente hanno scelto la via della convivenza con il virus, nella Repubblica popolare si continuano a imporre lockdown localizzati ogni volta che si manifesta un focolaio. Una politica del genere, che l’Organizzazione mondiale della sanità ha definito “insostenibile”, porta a chiusure temporanee in aree essenziali per i traffici planetari, come la già citata Shenzen o la megalopoli di Shangai, colosso da 25 milioni di abitanti e crocevia del commercio mondiale, in lockdown da sei settimane. I prodotti coinvolti dai blocchi riguardano molto da vicino la componentistica per le auto, come i famosi chip semiconduttori di cui la Cina è produttore leader a livello mondiale. Ne sa qualcosa Tesla, la casa automobilistica Shangai produce parte delle proprie auto elettriche. L’azienda, guidata da Elon Musk, ad aprile ha registrato considerevoli ritardi nella consegna dei veicoli, dovuti all’impossibilità di soddisfare il fabbisogno di componentistica. Non è un caso se l’amministrazione statunitense stia lavorando da mesi per cercare di incrementare la produzione di semiconduttori sul territorio nazionale, in modo da ridurre la dipendenza dal mercato cinese.
Il caso del tessile
A risentirne non è solo il comparto tecnologico. Nei rallentamenti è coinvolto anche il settore del tessile, le cui produzioni fra Italia e Cina sono strettamente interconnesse. Esemplificativo, in questo senso, il caso di Prato. La città della Toscana è uno dei più importanti centri tessile-moda europei e conta ad oggi oltre 16mila cinesi residenti e regolarmente censiti (ma si pensa siano molti di più). Anche gli operatori di questo comparto lamentano ritardi nelle consegne di materie prime da Pechino e conseguenti aumenti di prezzo dovuti ai problemi di approvvigionamento. Lana, cotone e lino non sono disponibili in quantità sufficienti a riportare a pieno regime le produzioni, già fortemente provate dalla fase più acuta della pandemia.