Non è bastato l’election day: il referendum sulla giustizia non ha raggiunto il quorum minimo di votanti. In ballo c’erano cinque quesiti su legge Severino, custodia cautelare e magistratura. I promotori (Lega e Radicali) sono arrivati spaccati e senza spendersi sulla comunicazione, preferendo concentrarsi sulle amministrative. Decisiva anche la bocciatura dei referendum su cannabis ed eutanasia. Il M5s ha votato no, il Pd è rimasto neutrale.
Il referendum sulla giustizia è naufragato. Il quorum del 50%+1 degli aventi diritto, come riportano i primi exit poll Rai, non è stato raggiunto. Un risultato già ampiamente previsto dagli analisti nelle scorse settimane. I promotori del referendum speravano di raggiungere il numero minimo di voti grazie all’election day nelle 948 città in cui si è votato anche per le amministrative. Ma non è stato sufficiente. Su circa 50 milioni di elettori, ha votato per il referendum meno del 25%.
Il referendum abrogativo – promosso da Lega e Radicali – si componeva di cinque diversi quesiti. Il primo proponeva l’abrogazione completa della legge Severino sull’incandidabilità di persone con condanne anche non definitive per delitti non colposi, mentre il secondo sulla revisione della custodia cautelare in carcere in attesa di una sentenza. Gli altri tre quesiti riguardavano la magistratura.
Il silenzio della politica
Ad eccezione dei promotori, nelle ultime settimane la politica ha quasi ignorato la campagna referendaria, preferendo concentrarsi sulla gara per le amministrative. Secondo il leader della Lega Matteo Salvini, sul tema si è alzato “un muro di omertà, censura e silenzio” che ha infine portato al fallimento del referendum.
Lo stesso Salvini ha però cambiato radicalmente la strategia comunicativa nel tempo. All’inizio della campagna referendaria – più di un anno fa, a maggio 2021, quando era necessario raccogliere le firme per arrivare al voto – il leader della Lega aveva avviato un’intensa campagna sia sui social che offline. Post quasi quotidiani, volantinaggio, gazebo in molte città italiane. Lo slogan era “Chi sbaglia paga!“, in riferimento a un quesito sulla responsabilità civile diretta dei magistrati successivamente affossato dalla Corte costituzionale, che lo ha bollato come inammissibile.
Col passare del tempo il martellamento si è però affievolito. Complice l’affossamento sia del quesito sulla responsabilità dei magistrati sia dei referendum su eutanasia e cannabis per cui si sarebbe probabilmente votato nello stesso giorno con forte innalzamento della partecipazione al voto, Salvini ha iniziato a defilarsi. Tra febbraio e inizio maggio nessun post, pochissime interviste sul tema e solo alcune dichiarazioni sparse alla stampa.
Il mistero delle firme
Per presentare un referendum abrogativo alla Corte costituzionale è necessario raccogliere almeno 500mila firme di elettori. Nel caso dei quesiti sulla giustizia Salvini aveva fatto sapere già a fine ottobre di averne raccolte ben 700mila.
Tuttavia quelle firme non sono mai state depositate e nessuno ha mai avuto modo di vederle. Per presentare i quesiti alla Corte, il leader della Lega ha infatti preferito ricorrere a un’altra via prevista dalla legge: quella di presentare almeno cinque responsi favorevoli da altrettanti presidenti di Regione. La mancata presentazione delle firme – e il dubbio che in realtà non siano mai esistite – è stato motivo di forte spaccatura tra i promotori.
La reazione di Emma Bonino
Non è un caso, i Radicali non si sono limitati a denunciare il silenzio mediatico sul referendum, ma anche l’atteggiamento di Salvini. In un’intervista a Le Formiche, la leader Emma Bonino ha detto che “Giornali, Tv e siti di informazione si interessano di giustizia solo nella sua dimensione manettara: se c’è il mostro da sbattere in prima pagina, ovviamente senza che sia stata emessa alcuna sentenza o addirittura che ci siano indagati” e che questo “non riguarda solo i politici, ma anche le persone comuni”.
Emma Bonino ha anche attaccato il promotore Salvini, che avrebbe “dapprima lanciato i referendum per poi abbandonare la nave, troppo impegnato a mettere in discussione le scelte di Draghi e a correre in soccorso dell’amico Putin per avere la priorità dei referendum”.
Le posizioni degli altri partiti
Gli altri partiti politici non si sono espressi con veemenza neanche per comunicare il proprio dissenso. L’unico partito che ha espresso un no trasversale è il Movimento cinque stelle. Secondo il presidente del M5s Giuseppe Conte “i quesiti referendari sulla giustizia offrono una visione parziale e sicuramente sono inidonei a migliorare e a rendere più efficiente e più equo il servizio della giustizia”. D’accordo anche la senatrice pentastellata Alessandra Maiorino, secondo cui i quesiti “hanno un sapore propagandistico e non di sostanza” e “andrebbero comunque a peggiorare il sistema giudiziario”.
Il caso più singolare è però quello di Fratelli d’Italia. Inizialmente favorevole alla linea per il sì della Lega e di Forza Italia, ben presto il partito di Giorgia Meloni si è parzialmente defilato, garantendo il proprio appoggio solo ai tre quesiti sulla magistratura. Secondo Meloni i primi due infatti “non appartengono alla storia e alla cultura della destra e di Alleanza nazionale”.
Al momento del voto, il fronte del sì è stato dunque sostenuto solo da Lega, Forza Italia e dai partiti centristi, tra cui Italia Viva e Azione. Il Partito democratico ha invece preferito rimanere neutrale. Almeno formalmente, visto che vari esponenti democratici, tra cui il segretario Enrico Letta, ci hanno tenuto a far sapere di aver votato per il no.