Andare in pensione prima dei 67 anni, ma ricalcolando tutto l’assegno col metodo contributivo perché la flessibilità in uscita sia sostenibile, non abbia cioè un impatto sui conti pubblici. Il governo ha presentato questa opzione ieri ai sindacati nell’ultimo dei confronti tecnici in vista del tavolo politico conclusivo con i ministri Franco e Orlando della prossima settimana. Si tratta della tesi del premier Draghi che però non piace a Cgil, Cisl e Uil. “Se comporta un taglio del 30% come in Opzione Donna è inaccettabile“, dice il segretario confederale Cgil Roberto Ghiselli.
Un punto di mediazione in realtà è all’orizzonte: uscire a 64 anni con almeno 20 di contributi e una penalizzazione del 3% al massimo per ogni anno di anticipo. Purché la pensione spettante non sia troppo bassa, ma superiore all’assegno sociale di un certo numero di volte. La formula esiste già per i contributivi puri, quelli che lavorano dal 1996, con un multiplo di 2,8 volte: si esce a 64 anni solo con pensioni di almeno 1.311 euro. Limite troppo alto, per i sindacati. Il governo potrebbe abbassarlo, se decidesse di estendere questa formula a chi è nel sistema misto (retributivo e contributivo). Si comincia a trattare.
La soluzione sarebbe non solo sostenibile per i conti, ma anche digeribile da Bruxelles. All’Europa verrebbe spiegato che in Italia si estende il contributivo a tutti, di fatto. Tanto più che, come evidenziato dall’ultimo rapporto del centro ricerche Itinerari previdenziali presentato ieri da Alberto Brambilla, da quest’anno “il 90% delle persone in uscita dal lavoro andranno in pensione con il calcolo misto e che la parte retributiva peserà solo per il 30% sull’assegno“. Intervenire dunque su quel pezzetto retributivo, che tende ad assottigliarsi sempre di più, potrebbe non essere traumatico.
Non sono del tutto d’accordo i sindacati. “Dipende come si fa il ricalcolo, noi siamo contrari in ogni caso, troppo penalizzante”, dicono. Ma un’ipotesi, rielaborata dall’economista Michele Raitano, viene guardata con sempre più interesse anche nei corridoi di Palazzo Chigi. Qui non c’è un ricalcolo come in Opzione Donna. Ma un’attualizzazione del pezzetto retributivo.
Cioè un suo adeguamento, ottenibile applicando la differenza tra due indicatori importanti che trasformano la massa di contributi versati in una vita di lavoro (il montante) in pensione: i coefficienti di trasformazione (ce n’è uno per ogni età di uscita). In buona sostanza la parte retributiva sarebbe decurtata della differenza tra i coefficienti corrispondenti a 64 e 67 anni, l’età di anticipo e quella legale. Al massimo si arriverebbe al 3% all’anno di taglio, 9% in tre anni, limitato alla parte retributiva: quindi molto più basso e sopportabile sull’intera pensione.
L’ipotesi è sul tavolo. Mentre il governo ha respinto l’altra proposta dei sindacati di uscita con 41 anni di contributi a prescindere dall’età. Ma ha aperto sulla cumulabilità tra pensione povera e assegno sociale. “Bene il governo sulla flessibilità, ma sbagliata l’idea di legarla al ricalcolo contributivo”, dicono Ignazio Ganga (Cisl) e Domenico Proietti (Uil). L’attuale uscita anticipata di Quota 102 – 64 anni e 38 di contributi – scade il 31 dicembre. Dal primo gennaio 2023 si applica la legge Fornero con uscita a 67 anni. Il premier si è impegnato a rivedere quella legge e inserire il nuovo assetto nel prossimo Def di marzo, il Documento di economia e finanza.