La Corte costituzionale ha stabilito che il pagamento ritardato delle liquidazioni agli statali, fino a un massimo di 7 anni, è in contrasto con la Costituzione. Questa decisione è stata presa in seguito a una causa avviata dal sindacato Confsal-Unsa, che ha contestato la pratica dei ritardi di pagamento delle liquidazioni e ha rivendicato il diritto dei dipendenti pubblici di ricevere lo stesso trattamento dei dipendenti privati.

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Il problema delle spese per l’Inps e lo Stato

Questo verdetto rappresenta una sfida per l’Inps e per lo Stato, poiché si prevede che l’anno prossimo circa 150.000 dipendenti pubblici andranno in pensione, con un costo stimato di 10,5 miliardi di euro per le liquidazioni. Questa spesa rappresenta una sfida significativa da gestire.

I ritardi nei pagamenti

Attualmente, secondo le regole vigenti, un dipendente pubblico deve attendere due anni per incassare la liquidazione, senza rivalutazioni o interessi. Nel caso in cui il dipendente esca anticipatamente con un anticipo di 5 anni, ad esempio utilizzando la misura di Quota 100, il periodo di attesa aumenta a 7 anni. Il pagamento avviene solo dopo che il dipendente ha raggiunto l’età pensionabile di 67 anni.

La tesi dell’INPS

Secondo l’Inps, nella memoria che era stata depositata, occorre distinguere tra Tfs, ossia la liquidazione per i dipendenti assunti fino al 31 dicembre 2000 (parametrata all’80% dell’ultimo stipendio), ed il Tfr, ovvero il trattamento di fine rapporto riservato a chi è stato assunto nel pubblico impiego a partire dal gennaio del 2001 e che, come nel privato, è una retribuzione differita trattenuta ogni mese dallo stipendio. A loro giudizio quindi, solamente il Tfr degli statali andrebbe assoggettato alle stese regole dei privati, il Tfs no. Il differimento dei versamenti insomma sarebbe giustificato, tenendo poi presente che l’ente dallo scorso febbraio consente comunque di incamerare subito il Tfs attivando un prestito a tasso agevolato dell’1% che consente di avere un anticipo sulla somma che spetta al lavoratore. Questa tesi non è però passata.

Il contesto storico

Il governo Monti, nel 2011, autorizzò il pagamento differito delle liquidazioni ai dipendenti pubblici per alleviare la situazione finanziaria dello Stato. Tuttavia, nel 2019, una sentenza della Corte Costituzionale stabilì che il diritto del lavoratore pubblico alla liquidazione poteva essere sacrificato solo nei casi di cessazione anticipata dal lavoro. Anche il Tar del Lazio, un anno fa, sollevò la questione della legittimità delle attuali norme che dilazionano il pagamento del Trattamento di fine servizio per i dipendenti pubblici rispetto ai tempi previsti nel settore privato.

La decisione della Consulta

Il differimento della corresponsione dei trattamenti di fine servizio (T.F.S.) spettanti ai dipendenti pubblici cessati dall’impiego per raggiunti limiti di età o di servizio contrasta con il principio costituzionale della giusta retribuzione, di cui tali prestazioni costituiscono una componente; principio che si sostanzia non solo nella congruità dell’ammontare corrisposto, ma anche nella tempestività della erogazione.

Si tratta di un emolumento volto a sopperire alle peculiari esigenze del lavoratore in una particolare e più vulnerabile stagione della esistenza umana. Spetta al legislatore, avuto riguardo al rilevante impatto finanziario che il superamento del differimento comporta, individuare i mezzi e le modalità di attuazione di un intervento riformatore che tenga conto anche degli impegni assunti nell’ambito della precedente programmazione economico-finanziaria.

Lo ha affermato la sentenza n.130 (redattrice la giudice Maria Rosaria San Giorgio), con cui sono state dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del decreto-legge n. 79 del 1997, come convertito, e dell’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010, come convertito, che prevedono rispettivamente il differimento e la rateizzazione delle prestazioni.

Le questioni erano state sollevate dal Tribunale amministrativo per il Lazio, sezione terza quater, in riferimento all’art. 36 Cost. Tuttavia, la discrezionalità del legislatore al riguardo – ha chiarito la Corte – non è temporalmente illimitata. E non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa, tenuto anche conto che la Corte aveva già rivolto al legislatore, con la sentenza n.159 del 2019, un monito con il quale si segnalava la problematicità della normativa in esame.

La Corte ha poi rilevato che la disciplina del pagamento rateale delle indennità di fine servizio prevede temperamenti a favore dei beneficiari dei trattamenti meno elevati. Comunque, conclude la Corte, tale normativa – che era connessa a esigenze contingenti di consolidamento dei conti pubblici – in quanto combinata con il differimento della prestazione, finisce per aggravare il rilevato vulnus.

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Articolo tratto dal Portale di Informazione InfoDifesa