La sindrome da esaurimento emotivo e fisico porta all’erosione dell’impegno sul lavoro. Una categoria di lavoratori la conosce ancora più da vicino: gli insegnanti. La pandemia da Covid-19 ha peggiorato il fenomeno anche in Italia. Così all’estero, negli Stati Uniti, pensano di affrontare il problema riducendo a soli quattro giorni la settimana scolastica. Si può fare anche qui?

Anche se lo stato d’emergenza per contenere i contagi da coronavirus è terminato, gli effetti sul lungo periodo continuano a vedersi. Anche tra i banchi di scuola. A gennaio scorso, durante un’audizione alla Camera dei deputati, il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi lanciava un monito dai toni allarmanti sul tema burnout. “La situazione è seria e noi la stiamo affrontando. So bene cosa significa il disagio psicologico, bisogna affrontarla con realismo. Tutti siamo provati duramente. Non è la didattica a distanza che fa male, ma l’isolamento. Con questa situazione c’è rischio alto di burnout per il personale scolastico”. Ma la questione precede l’emergenza sanitaria. “Già prima della pandemia avevamo situazioni che esprimevano molto disagio, che si è materializzato anche in maniera esplicita con tassi di abbandono. Credo che questo sia oggi uno dei temi principali che dobbiamo affrontare”, spiegava ancora Bianchi.

Cos’è il burnout e “quanto pesa” in Italia

Gli studi specialistici definiscono il burnout tra gli insegnanti come una condizione psicologica che porta all’esaurimento, alla spersonalizzazione e alla diminuzione dei risultati e dell’autostima. Le motivazioni, nel caso italiano, sono tante e di lunga data. Uno studio dell’Università di Siena – che analizza in parallelo il burnout tra gli insegnanti e quello relativo a forze dell’ordine e personale sanitario – evidenzia che “la scuola ed i suoi valori, stanno vivendo un grande periodo di crisi che sta facilitando un ritorno all’analfabetismo: le riforme scolastiche si discostano sempre di più dall’alunno e tendono più a danneggiarlo che ad aiutarlo”.

La ricerca più importante sulla materia è lo studio del 2003 intitolato Getsemani e coordinato dal prof. Vittorio Lodolo D’Oria, medico specialista ed esperto in malattie professionali degli insegnanti. I dati vengono raccolti partendo dall’analisi degli accertamenti sanitari per l’inabilità al lavoro, svolta dai Collegi Medici della ASL Città di Milano. Un elemento che contribuisce al burnout, spiega l’indagine, riguarda il numero di alunni con cui il docente deve rapportarsi, quasi sempre superiore alla media europea a parità di grado d’istruzione. Un altro motivo è la mancanza di strumenti didattici volti a migliorare l’attività educativa. Ulteriore fattore, di certo non meno importante, è il divario tra i salari degli insegnanti italiani e i colleghi al di fuori dai nostri confini. Non è una questione meramente economica, quanto piuttosto di dignità per una professione che sembra aver perso l’autorevolezza di una volta. Lo dimostra, tra le altre cose, il rapporto sempre più conflittuale con i genitori degli alunni (soprattutto alla primaria e alla secondaria di primo grado).

A questi elementi si aggiunge spesso l’incombenza di lavorare in aree disagiate e socialmente svantaggiate, strutture fatiscenti, dotazioni didattiche insufficienti e/o inadeguate. Lo studio Getsemani conclude, paragonando il manifestarsi della sindrome tra i docenti e altri lavoratori, che “la categoria degli insegnanti è soggetta a una frequenza di patologie psichiatriche pari a due volte quella della categoria degli impiegati, due volte e mezzo quella del personale sanitario e tre volte quella degli operatori dell’amministrazione pubblica”.

Gli effetti della pandemia sui docenti

Con la pandemia si sono aggiunti nuovi elementi di tensione. La necessità di attrezzarsi – tecnicamente e didatticamente – con gli strumenti di pedagogia a distanza, l’utilizzo delle mascherine che spesso – soprattutto alla primaria e alla scuola dell’infanzia – impediscono di utilizzare le espressioni del viso come forma di comunicazione (e comprensione) non verbale. Va considerato, inoltre, il continuo flusso di regolamenti e direttive ministeriali – spesso molto complesse – che via via hanno fornito le linee guida agli insegnanti nel contesto pandemico per portare avanti l’attività didattica. Insomma, le fonti di stress sono aumentate esponenzialmente. E con esse il rischio di burnout e di abbandono.

Usa: settimana scolastica ridotta a 4 giorni

Negli Stati Uniti, come spiega un approfondimento del quotidiano The Hill, diversi circondari didattici hanno pensato di adottare una soluzione drastica: la riduzione della settimana scolastica a soli quattro giorni.  La duratura carenza di insegnanti a livello nazionale, alimentata dal burnout dovuto alla pandemia, ha portato diversi distretti scolastici degli Stati Uniti a offrire una settimana ridotta per incoraggiare gli insegnanti a restare al loro posto. Ma un’iniziativa del genere può essere efficace? Prima della pandemia, i distretti in almeno 24 Stati erano passati a settimane scolastiche abbreviate per attirare gli insegnanti. Questo fenomeno ha rappresentato un aumento di oltre il 600% dei casi dal 1999, secondo un’analisi della Brookings Institution. E sebbene la carenza di insegnanti sia anteriore di decenni rispetto alla pandemia, il burnout avvertito dagli educatori durante l’emergenza ha portato alcuni distretti a utilizzare settimane di istruzione di quattro giorni come incentivo per presentare candidature e rimanere nelle loro posizioni. Randi Weingarten, presidente della Federazione americana degli insegnanti (il più grande sindacato del settore), rimane scettico. “Una settimana lavorativa ridotta non è la ‘pillola magica’ per risolvere il problema della carenza di educatori e, in alcuni casi, potrebbe essere usata come scusa dagli amministratori per non investire nelle scuole. Gli insegnanti vogliono stare a scuola per aiutare i bambini, con le condizioni di cui hanno bisogno per avere successo. Fornire loro orari flessibili è utile, così come ridurre le dimensioni delle classi”, ha spiegato Weingarten ai microfoni di Changing America.

Stessa soluzione in Italia? Cosa dice la normativa

Ma in Italia sarebbe praticabile una soluzione del genere? Innanzitutto bisogna distinguere tra quella che è la settimana scolastica “offerta” dagli istituti e l’orario che un docente è tenuto a organizzare. La rivista specializzata Orizzonte Scuola, rispondendo ad una domanda in merito di un lettore, spiega che l’orario settimanale dei docenti varia in base all’ordine e grado di istruzione, ma non può essere distribuito in quattro giorni. Secondo la normativa vigente, infatti, l’art.28 comma 5 del CCNL scuola 2006/2009 prevede che: “Nell’ambito del calendario scolastico delle lezioni definito a livello regionale, l’attività di insegnamento si svolge in 25 ore settimanali nella scuola dell’infanzia, in 22 ore settimanali nella scuola elementare e in 18 ore settimanali nelle scuole e istituti d’istruzione secondaria ed artistica, distribuite in non meno di cinque giornate settimanali”. A questo si aggiungerebbe il problema dei programmi didattici, spesso troppo vasti per essere completati con un monte ore addirittura ridotto rispetto a quello attuale. Tuttavia, in linea teorica, nulla vieterebbe di modificare la norma in questione.

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