In Italia, di fronte alla legge, non tutte le famiglie sono uguali. Migliaia di persone Lgbtq+ vedono negarsi dallo Stato il diritto di essere genitori. Il riconoscimento dei figli delle famiglie arcobaleno, che spesso nascono all’estero, infatti non avviene automaticamente. Vi raccontiamo le storie di chi vive questa discriminazione sulla propria pelle ogni giorno.
Nella mappa “Rainbow Europe 2022“, pubblicata dalla sezione europea della International lesbian and gay association (ILGA-Europe), che mostra ogni anno una panoramica dei diritti Lgbtq+ in 49 Paesi europei, l’Italia quest’anno si trova solo al 33esimo posto. Infatti, oltre a non avere una legge che punisca gli atti d’odio sulla base del genere e dell’orientamento sessuale, nel nostro Paese mancano disposizioni in materia di omogenitorialità. Sono migliaia le cosiddette “famiglie arcobaleno” in Italia, dove non esistono leggi che consentano alle coppie di due uomini o due donne di veder riconosciuto il loro status di genitori. E al di là delle classifiche e delle statistiche, questo vuoto legislativo influisce sulla vita reale, sul quotidiano di persone come Carlo e Alessia che, insieme ai rispettivi partner ed ex partner, crescono i loro figli ogni giorno, nonostante le difficoltà. Ecco le le loro storie.
Quattro uomini e una stella: la storia di Carlo e Christian
Carlo Tumino e Christian De Florio, meglio conosciuti su Instagram come “Papà per scelta”, pochi giorni fa hanno celebrato il quinto anno della loro unione. E da quattro sono anche i papà di due gemelli, Julian e Sebastian. “Ci definiamo ‘papà per scelta’ perché la nostra decisione è stata molto ponderata, sapevamo di vivere in un Paese che, soprattutto da un punto di vista burocratico e politico, ci avrebbe accolto al nostro rientro dagli Stati Uniti in modo ostile”, racconta Tumino. La coppia ha fatto ricorso alla gestazione per altri (Gpa) negli Stati Uniti, una pratica molto comune nel Paese, mentre in Italia non è legale.
Come spiega Tumino, la coppia non si è fatta spaventare, mossa da un forte e condiviso desiderio di paternità: “Parlo anche a nome di Christian perché conosco molto bene la sua storia: lui è nato in una famiglia non tradizionale, è cresciuto con la figura di un padre assente. E ha covato dentro di sé questa voglia di donare a un figlio tutto quello che lui non ha mai potuto avere, anche per essere un uomo migliore rispetto al suo babbo. Io invece sono cresciuto in una famiglia super tradizionale e sono stato un figlio felicissimo: è stato talmente bello esserlo che ho pensato mi sarebbe piaciuto regalare le stesse emozioni a un altro bambino. Quando ci siamo sposati, ci siamo sentiti subito ‘famiglia’, ma percepivamo che ci mancava qualcosa. Dentro di noi avevamo questa vocazione genitoriale che ci ha portato dall’altra parte del mondo. Vorremmo che non si parlasse più solo dell’esistenza di un ‘istinto materno‘: l’istinto genitoriale può essere sia al maschile che al femminile e così come ci sono delle donne che non vogliono avere figli, ci sono uomini che invece vogliono diventare genitori”.
I problemi sono arrivati quando Carlo, Christian, Julian e Sebastian sono rientrati in Italia. “Nel nostro Paese non esiste una legge che vieti la trascrizione dell’atto di nascita di bambini nati all’estero da due papà o da due mamme, necessaria al riconoscimento, ma non ce n’è una che lo faccia automaticamente”, ci spiega Tumino. “Esiste quindi una sorta di voragine legislativa e la decisione è demandata ai sindaci che, in quanto garanti dell’anagrafe, possono scegliere se trascrivere o meno l’atto. Succede quindi che il riconoscimento in Italia avviene a macchia di leopardo”.
Proprio per questo, la famiglia si è dovuta trasferire dal paese di provincia dove abitavano alla città di Rimini, dove il sindaco ha riconosciuto Julian e Sebastian. Ricorda Tumino: “Dopo sette mesi i bambini sono stati iscritti all’anagrafe italiana ma in questo lasso di tempo non avevano un pediatra, una carta d’identità, un codice Inps, non potevano vaccinarsi. Abbiamo saltato il primo ciclo di vaccinazioni perché il nostro Stato non riconosce automaticamente due bambini con due papà. E questa per noi è una cosa veramente allucinante, una cosa che io vorrei far capire alle persone che si battono contro le famiglie omogenitoriali: le loro decisioni vanno a influire sul presente dei nostri figli”.
Di fronte a questa situazione, Carlo e Christian hanno deciso di non arrendersi e di diffondere cultura sull’omogenitorialità e la gestazione per altri attraverso i social, un podcast su Spotify, “Questione di famiglia” e scrivendo un libro, “Quattro uomini e una stella“. “Crediamo che esista una forma di attivismo tanto importante quanto quella delle persone che scendono in piazza, un attivismo informativo che passa dal racconto del proprio quotidiano per far capire alle persone che non siamo poi così tanto diversi, come qualcuno vuole far credere”, spiega Tumino. “E, cosa non meno importante, tutto questo lo facciamo per Julian e Sebastian. Perché vogliamo che vivano e crescano in un contesto più inclusivo, aperto di mentalità, meno cattivo e ostile. Abbiamo le spalle larghe per sopportare tante critiche e se tutto questo significa che un giorno Julian e Sebastian vivano in un Paese più democratico e civile, ci prendiamo volentieri questa responsabilità”.
La battaglia per l’uguaglianza familiare di Alessia, mamma di Levon
“Ho un figlio di quasi 8 anni, nato da una precedente storia durata 7 anni. Dopo un paio di anni che stavamo insieme, io e la mia ex compagna abbiamo deciso di diventare madri ma in Italia non era possibile. Quindi siamo andate prima in Danimarca, dove abbiamo fatto due tentativi che non sono andati bene, e poi in Spagna dove invece siamo state fortunate. Nel dicembre del 2013 la mia ex compagna è rimasta incinta”. Alessia Crocini è la presidentessa dell’associazione “Famiglie arcobaleno” e madre di Levon, bimbo nato tramite procreazione medicalmente assistita (Pma).
Crocini e la sua ex compagna, l’altra mamma di Levon, sono dovute andare all’estero perché in Italia non è possibile per le coppie di donne e per le donne single accedere alla Pma, pratica consentita invece alle coppie eterosessuali. In questo caso, come ci spiega la presidentessa, anche se il padre del bambino non è quello biologico, ne diventa automaticamente il padre legale: “Per lo Stato italiano io che non sono la madre biologica non sono nemmeno quella legale. In una coppia di donne è madre solo chi partorisce. Quindi, legalmente mio figlio ha un solo genitore”.
Crocini, dopo 8 anni di vita insieme al figlio, continua a non essere riconosciuta come sua madre: “È una vita terribile, faccio le cose solo con le deleghe dell’altra mamma. E tante altre non le posso proprio fare: mio figlio è stato ricoverato in ospedale con una malattia grave e l’unica che poteva dare il consenso per le cure era la mia ex compagna. Mio figlio è stato ricoverato diverse volte in day hospital e ha liberamente scelto di far entrare me in ospedale. Ma al momento delle dimissioni ho dovuto chiamare l’altra mamma perché, nonostante avessi la delega e le fotocopie dei documenti, non volevano dimettere il bambino. È stata veramente una situazione umiliante“.
Per cercare di ovviare a questo riconoscimento mancato, Crocini sta tentando di adottare Levon attraverso la stepchild adoption, la forma di adozione che consente a un genitore non biologico di adottare il figlio, naturale o adottivo, del partner. “È da un anno che sto seguendo un iter complicatissimo per chiedere a un collegio di giudici, che non sa nulla di me e della mia vita, il permesso per fare quello che faccio da otto anni insieme alla mia ex compagna: la madre. Una cosa è scegliere di adottare un bambino non tuo, che per me è un gesto bellissimo, un’altra è adottare il figlio che ho messo al mondo. Al di là della biologia, senza l’incontro tra me e l’altra mamma, la persona che oggi si chiama Levon non ci sarebbe. Cosa sono 9 mesi di gestazione in confronto a una vita? Vogliamo dire che è tutto lì e non conta quello che succede dopo?”.
Per questo Crocini, insieme all’associazione di cui è presidentessa e a Rete Lenford, ha consegnato in Parlamento all’inizio del mese di giugno una proposta di legge “per l’uguaglianza e la pari dignità di tutte le famiglie”. Ci spiega Crocini: “La proposta non introduce nuove leggi ma estende semplicemente quelle già esistenti e di fatto vuole andare a sanare quegli squilibri e discriminazioni che ci sono tra le coppie eterosessuali e quelle omosessuali. Ruota su quattro cardini: il matrimonio egualitario, il riconoscimento dei figli per entrambi i genitori di coppie omogenitoriali, l’accesso alla Pma per donne single e coppie di donne e la riforma delle adozioni per concederla a coppie di persone dello stesso sesso e persone single”.
Il problema non è solo nella concezione molto diffusa in Italia che vede nel legame biologico una sorta di vincolo indistruttibile e necessario per la vita del bambino, ma anche e soprattutto nell’assenza di un quadro normativo che tuteli entrambi i genitori delle coppie arcobaleno. Racconta Crocini: “Io e la mia ex compagna ci occupiamo di Levon allo stesso modo: gli prepariamo da mangiare da quando è nato, gli abbiamo cambiato il pannolino e lo portiamo con noi ovunque. E nel mio caso la separazione è stata molto serena, posso vedere mio figlio al 50%. Ma la nostra associazione ha raccolto storie di madri che, dopo separazioni conflittuali, non possono più vedere i figli. Immaginiamo che cosa drammatica può essere questa: crescere un figlio per 6-7 anni e, a un certo punto, non poterlo più nemmeno vedere perché la legge riconosce come genitore solo il tuo partner. Le coppie eterosessuali in questi casi hanno la legge dalla loro parte, entrambi hanno gli stessi diritti e doveri nei confronti dei figli. Ma quando per lo Stato sei un estraneo la situazione è in salita”.