Un minatore calabrese, emigrato nel Nord Italia per lavorare e costruire le grandi opere del Paese, racconta come il suo lavoro si sia evoluto nel corso nel tempo. Un impiego pericoloso ma importante, che necessita di grandi sacrifici, anche a livello familiare.

“Papà faceva il minatore, anche i miei zii, mio suocero. Il mio paese d’origine è sempre stato un luogo di minatori e io lo sono diventato per necessità”. Il racconto è di Carmine (nome di fantasia). Nato in Calabria, una vita negli scavi delle grandi opere italiane, soprattutto nel Nord del Paese. L’ultima, il tunnel del Brennero, a circa 1.200 chilometri da casa. Non è il solo, come spiega Simone Celebre, segretario della Fillea Cgil di Cosenza, perché parte di un fenomeno migratorio “che svuota le comunità di un lembo della Calabria e che lascia nei paesi quasi solo le mogli e i figli”.

Si va dalla frazione di Serricella di Acri, in provincia di Cosenza, e di Pagliarelle di Petilia Policastro (Crotone), fino a quelle nei Comuni di Colosimi e Motta San Giovanni (Reggio Calabria), più a Sud. Poche migliaia di abitanti – Motta San Giovanni è la città più popolosa e arriva a soli 5mila – ridotte durante l’anno dall’emigrazione di quegli operai specializzati nei lavori che richiedono l’impiego di mine nel campo dell’edilizia. Nulla a che vedere con l’industria estrattiva delle classiche miniere alla Rosso Malpelo, ma che comunque, nel caso dello scavo delle gallerie, ad esempio, comporta la perforazione di montagne e attività in sotterraneo particolarmente pericolose.

La situazione di Pagliarelle

Delle 1.400 persone che vivono a Pagliarelle, 500 – quasi uno su tre – sono minatori in attività. Se si considera una famiglia composta da madre, padre e almeno un figlio, a partire sono quasi tutti i papà. “È un mestiere che spesso si tramanda di genitore in figlio”, dice Celebre. Inoltre “nell’edilizia da noi il lavoro è poco”, motiva la scelta Carmine, mentre l’esperienza dei minatori calabresi è oggi molto richiesta. “Lavorano nel III Megalotto (della SS 106 Jonica, ndr) in Calabria, per costruire l’alta velocità del Terzo Valico tra Piemonte e Liguria – elenca Celebre – ma anche oltre confine, in Svezia e in Germania”.

“Una volta che entri a fare il minatore è difficile che smetti di farlo”, aggiunge Carmine. Oltre alla tradizione mineraria di queste comunità e lo sbocco lavorativo, a fare la differenza oggi è anche la paga: la media per un operaio specializzato è di 2.600 euro netti al mese, calcolati sui rischi a breve e a lungo termine per la sua salute.

Com’è cambiato il lavoro del minatore

Gli incidenti, come nel caso di Salvatore Cucè, l’operaio 33enne di Roccabernarda, un piccolo Comune vicino Pagliarelle, morto il 6 febbraio scorso proprio in un cantiere della linea ferroviaria del Terzo Valico dopo una fiammata dovuta a una fuga di gas durante gli scavi. “Ci possono essere degli smottamenti, cosa che per fortuna non capita quasi mai”, spiega Carmine, che prosegue, “poi in galleria devi anche solo saperci camminare. Perché lo spazio è limitato, ci sono le vie fuga, le vie dove passano i mezzi, devi cercare di intuire la manovra che può fare un mezzo, non avvicinarti troppo”. Nel lungo periodo, invece, si è a rischio di malattie respiratorie croniche come la silicosi, dovuta all’accumulo delle polveri nei polmoni negli anni.

“Io mi sento sicuro, altrimenti non farei questo lavoro”, scandisce Carmine, “rispetto a quando ho iniziato a lavorare in galleria nel 1991 le cose sono cambiate, perché prima la sicurezza non esisteva proprio”. Ricorda: “Il mio papà mi raccontava che non c’erano i guanti o i tappi per le orecchie o le mascherine, non esistevano neppure le tute da lavoro, mentre adesso ci sono quelli che chiamano indumenti di protezione individuale”. “Se capitavano in una galleria con una qualche falda e dovevano assemblare la centina, che è un cerchio in ferro che si mette sotto lo scavo per reggere la montagna (e sventare i pericoli di crollo del cantiere, ndr) – prosegue – rimanevano bagnati fino a quando non finiva il turno. Quando sono diventato minatore io invece non c’erano ancora le impalcature”.

Le garanzie di sicurezza

Oltre alle maggiori tutele sul posto di lavoro, anche il Contratto collettivo nazionale (Edilizia-Industria) garantisce oggi un orario di lavoro e condizioni migliori. Fino a qualche decina di anni fa, “c’era chi lavorava dieci, undici, dodici ore al giorno”, dice Celebre, cosa che aumentava il rischio di incidenti. Oggi i turni sono di otto ore, quaranta complessive a settimana e si riesce a tornare più spesso. “Fino a 25 anni fa i minatori spesso tornavano quando il lavoro finiva, dopo un anno, un anno e mezzo”, spiega.

“La cosa più brutta è la distanza con la famiglia”, sottolinea Carmine, che negli anni ha mancato più di un compleanno a casa: “Non è che puoi scendere per un giorno ma così, a lungo andare, ti sei perso parte della crescita dei tuoi figli”. L’impatto sociale di queste partenze emerge in particolar modo durante la festa dei minatori, un evento che si tiene durante il periodo delle ferie di agosto e che celebra questi lavoratori. “Viene sempre fuori l’amarezza, soprattutto perché poi devono ripartire, spesso lasciano figli anche piccoli”, dice Celebre. Gli fa eco Carmine: “Per garantire loro un futuro migliore abbiamo accettato questo sacrificio”.

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