Il generale Alessandro Casarsa che, secondo i giudici di primo grado, diede l’ordine di falsificare l’annotazione relativa alla notte dell’arresto di Stefano Cucchi, dando il via alla catena di manipolazioni che porterà a imbastire un processo nei confronti della polizia penitenziaria, non patirà conseguenze per la sua decisione benché sanzionata con cinque anni di carcere. Tutto è infatti pacificamente prescritto, considerato che stiamo parlando di un reato (il falso) commesso nel 2009. Ma anche i silenzi e le omissioni del colonnello Lorenzo Sabatino che nel 2015, quando era avviata un’inchiesta bis che puntava proprio ai carabinieri quali autori del pestaggio nei confronti del giovane, trascurarono di denunciare al pm Giovanni Musarò la falsa annotazione del fotosegnalamento (prova madre del fatto che qualcosa, negli uffici dei carabinieri, era andata male) non saranno perseguiti. Prescritti anche quelli malgrado in primo grado abbiano prodotto una condanna a un anno e 9 mesi.

Il «ritiro» di Ilaria Cucchi

Le sorti del più clamoroso processo sui depistaggi commessi dall’Arma dei carabinieri appaiono ancora una volta legate alla pressione mediatica attorno al caso. Questa pressione è venuta meno perché Ilaria Cucchi (oggi senatrice del centrosinistra) ha deciso di ritirare la sua costituzione al processo. Di colpo è quindi venuto meno il motore di quell’attenzione che a suo tempo aveva imposto il terzo filone investigativo su Cucchi quale simbolo di una giustizia negata prima e ritrovata poi.

Mai fissata la data del secondo grado

Sta di fatto che i giudici della Corte d’Appello non hanno ancora fissato la data dell’udienza del secondo grado malgrado la sollecitazione dell’avvocato Stefano Maccioni che rappresenta Giovanni Cucchi al processo. Un’istanza formale, notificata il 16 novembre scorso, è rimasta senza risposta. Così una delle inchieste più celeri (soprattutto in rapporto alla sua complessità) concluse dalla Procura si arena in secondo grado per ostacoli burocratici e sfuma nel nulla malgrado gli sforzi fatti durante la celebrazione del primo dibattimento dal giudice Roberto Nespeca che, con due e perfino tre udienze settimanali, aveva saputo garantire una chiusura del processo in tempi ragionevoli.

L’arretrato del tribunale

A giudizio del presidente della Corte d’Appello Giuseppe Meliadò, anche i depistaggi in questione sono vittima dell’arretrato storico del tribunale romano: «Quarantaseimilacinquecento fascicoli da smaltire — dice — una carenza del 20% dei magistrati e del 30% del personale amministrativo: con numeri del genere non possiamo fare miracoli. Avessimo quindici magistrati in più potremmo abbattere il 50% dell’arretrato…». Prigioniero della burocrazia, insomma, il processo-simbolo degli ultimi anni. Un fatto che indigna anche l’avvocato di parte civile Diego Perugini rappresentante di quella polizia penitenziaria ingiustamente accusata: «Abbiamo di fronte una giustizia melliflua quando si tratta dei potenti e arrogante con l’uomo della strada. Da anni aspettiamo scuse e risarcimenti per la vergogna cui abbiamo assistito. E invece da una parte si lasciano scivolare via i responsabili e dall’altra si prendono in giro le vittime promettendo risarcimenti che non arrivano. Vergogna tutta italiana». (Corriere.it)

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Articolo tratto dal Portale di Informazione InfoDifesa