Dopo la crisi che nelle ultime settimane ha investito diverse banche occidentali, anche in Italia hanno iniziato a circolare timori. Secondo l’economista Giorgio Arfaras, sentito da upday, non esiste alcun rischio contagio per gli istituti di credito italiani. Ecco perché.
La 16esima banca più grande degli Stati Uniti, la Silicon Valley Bank, è rimasta a secco di denaro a inizio marzo. Dietro il crack ci sono due ragioni, spiega ad upday l’economista Giorgio Arfaras. In primo luogo, la minor liquidità delle start-up. In secundis, la svalutazione delle obbligazioni che l’istituto di credito aveva in pancia e che ha dovuto vendere per ricavare soldi d’urgenza. Due problemi che, spiega Arfaras, le banche italiane non hanno. Ecco perché.
Capitolo uno: la crisi delle start-up
Partiamo dalla prima motivazione: la minor liquidità giunta alle start-up. “I soldi del venture capital arrivavano alla Silicon Valley Bank (Svb) e venivano dati alle start-up. Ma queste, proprio in quanto start-up, inizialmente non fatturano. E hanno bisogno continuamente di capitali di rischio prima che facciano ricavi. L’Enel ha tot milioni di persone che ogni tot mesi pagano la bolletta. Le start-up invece riescono a coprire la differenza fra ricavi e costi […] a fronte di conferimenti continui di capitale”.
E allora cosa è successo? Chi prestava i soldi – i venture capitalist, appunto – ha preferito investire nei titoli di Stato: il rendimento, grazie all’aumento dei tassi, è cresciuto di molto. E il rischio è basso. Quindi “le start-up si sono trovate in una condizione di semi-fallimento” mettendo in difficoltà alcune banche: indiziata speciale proprio la Svb, la sedicesima più grande degli Stati Uniti, con sede in California.
“In Italia non ci sono start-up: possiamo stare tranquilli”
E in Italia? “Non ci sono start-up come lo era Apple agli inizi. Questo è il motivo vero per cui possiamo stare tranquilli. È buffo: la non dinamicità dell’economia italiana è la salvezza quando le cose vanno male”, dice Arfaras, autore del libro “Le regole del caos. Riflessioni sul disordine economico e mondiale” (Paesi edizioni). “Le banche italiane sono ‘coniglie’, nel senso che prestano soldi dietro garanzia. Ovvero: i soldi li danno a chi ha un lavoro o, come direbbe Checco Zalone, un posto fisso. O anche un appartamento da dare in garanzia”, spiega l’esperto che fino al 2007 ha lavorato come director (responsabile delle gestioni patrimoniali in fondi) a Credit Suisse Italy.
Capitolo due: la svalutazione dei ‘vecchi’ titoli di Stato
Altro capitolo sono i titoli di Stato che le banche hanno comprato. Per anni i Paesi hanno offerto bassi tassi di interesse a chi prestava loro a medio-lungo termine (da un decennio a trenta anni). Gli istituti di credito hanno comprato queste obbligazioni per investire. A causa delle decisioni delle banche centrali, da alcuni mesi gli Stati offrono tassi di interesse ben più alti che in passato. Le obbligazioni ‘vecchie’ in pancia alle banche hanno invece interessi più bassi e quindi hanno perso di valore: se hanno bisogno di liquidità, gli istituti di credito devono rivenderle a un prezzo più basso di quello di acquisto. Questa dinamica è stata una delle concause del crack di Silicon Valley Bank.
“I crediti delle banche verso lo Stato sono gestibili”
Anche su questo fronte, gli istituti di credito italiani non destano preoccupazione: “Non è detto che le banche italiane abbiano investito tutti i soldi con le obbligazioni a 30 anni – precisa Arfaras, aggiungendo che comunque “se non muovono un dito e aspettano la scadenza dell’obbligazione, il Tesoro rimborsa“. Insomma, “i crediti verso lo Stato alla fine sono gestibili”.
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Il governo statunitense continuerà ad investire nel settore tech
La dinamicità è invece propria degli Stati Uniti, il Paese dove sono nati tutti i Gafam: Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft. Con i tassi in rapida salita diventano però sufficientemente remunerativi anche i titoli di Stato, che hanno anche un minore rischio di credito. C’è il rischio che il crack di Silicon Valley Bank freni gli investimenti nelle start-up e quindi l’innovazione Usa? Secondo Arfaras, no. In vista della transizione ecologica e digitale, “l’amministrazione statunitense vuole forzare gli investimenti e sono cifre enormi, altro che Silicon Valley Bank: l’intervento dello Stato in questo campo è abnorme e non minore rispetto al freno degli investimenti” privati. Infine, gli Stati Uniti hanno tutto l’interesse a investire in tecnologia per la competizione strategica con la Cina.
“Il problema? La finanza viene sempre salvata”
Passata (forse) la nottata, cosa si può imparare da questa tempesta? “La finanza è troppo volatile ma c’è sempre un sistema di salvataggio che scatta per venirle in soccorso. Questo è avvenuto nel 2008 e sta avvenendo adesso”, spiega Arfaras alludendo alle mosse di banche centrali e governi a sostegno degli istituti di credito apparsi più fragili.
“La finanza – e questo è un altro problema – viene sempre salvata. Quindi da parte di chi ci lavora esiste la tentazione di comportarsi in maniera impropria perché tanto viene salvato: too big to fail (troppo grande per fallire, ndr)”. Secondo l’economista, “questo prepara la prossima crisi, perché non c’è un sistema di premi e punizioni che invece dovrebbe esserci. Se fallisce un’industria, i suoi dirigenti vanno a spasso. Qui no: vengono salvati e quelli che vengono licenziati hanno comunque delle buonuscite considerevoli”.