CARTOLINE DALL’INFERNO: IL MIO 11 SETTEMBRE 2001 – RUGGERO DE ROSSI, 58 ANNI, NATO A ROMA MA CITTADINO AMERICANO, ERA NELLA TORRE SUD QUELLA MATTINA – “ERO APPENA ENTRATO QUANDO IL PRIMO AEREO SI SCHIANTO’ SULL’EDIFICIO ACCANTO” – IL RACCONTO DI COME SI SALVO’: “CI AVEVANO FATTO DELLE ESERCITAZIONI, CI AVEVANO INSEGNATO A USCIRE E A…” – “IL SENSO DI COLPA DI ESSERMI SALVATO NON MI HA PIU’ ABBANDONATO”
Anna Lombardi per la Repubblica
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«Il mio 11 settembre è tutto in una scatola. C’è una vecchia agenda, biglietti da visita, il badge per entrare nel mio ufficio, al 42esimo piano della Torre Sud, sì, la seconda a essere colpita. Giornali di quei giorni. E un disegno di mio figlio Jacopo che aveva 8 anni. Impressionato dai miei racconti tratteggiò i grattacieli in fiamme e la mia fuga. Un crogiuolo di memoria e dolore. Non lo rivisito quasi mai».
Ruggero De Rossi, 58 anni, nato a Roma ma cittadino americano, economista oggi consulente del Dipartimento del Tesoro Usa, ha riaperto quella scatola per noi. Vent’anni fa era nell’inferno del World Trade Center, dove morirono 2753 persone. «Potevo essere uno di loro».
Era una bellissima giornata: tutti i sopravvissuti iniziano così il loro racconto…
«Forse l’ultima davvero bella della mia vita a New York. Da allora il cielo limpido non mi ha più dato serenità. In America da sei anni, ero al top delle mie ambizioni: gestivo un portafoglio miliardario come responsabile degli investimenti internazionali di Oppenheimer Funds.
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Quella mattina avevo guardato da casa l’andamento dei mercati. Era tutto tranquillo e persi tempo a scrivere una mail arrivando in ritardo. Ero appena entrato nella Torre Sud, quando il primo aereo si schiantò sull’edificio accanto. Un fiume di gente si riversò nella lobby: pensai a un attacco armato da terra, poi mi accorsi che dall’alto cadeva di tutto».
Che cosa fece?
«Gli ascensori erano intasati. E la polizia aveva circondato l’edificio bloccando le porte. Avevamo fatto delle esercitazioni, ci avevano insegnato a uscire e lasciare tutto dietro: fu quello che salvò i miei colleghi, abbandonarono borse e telefonini e imboccarono le scale: ci vollero venti minuti a venir giù ma si salvarono. Gli impiegati di Cantor Fitzgerald, nostri vicini, fecero il contrario. Restarono alle scrivanie e morirono tutti. Nella lobby eravamo centinaia. Aspettammo intrappolati a lungo. Quando finalmente aprirono le porte, erano le 9.03…» .
Il secondo aereo stava già per schiantarsi sul vostro edificio…
«Avevo fatto due passi fuori dal portone, stavo iniziando a correre quando percepii l’ombra dell’aereo passarmi sulla testa. Sentii lo spostamento d’aria, il rumore assordante, lo schianto. Non mi voltai. Correvo. Piangevo. Urlavo. Quando mi fermai, qualche strada più in là, provai un incredibile senso di impotenza. Dovevo tornare indietro ad aiutare? Il senso di colpa di essermi salvato, non mi ha più lasciato».
Tornò a casa.
«Ci misi tre ore. Non c’era campo, nessuna possibilità di comunicare. A informarci erano persone incontrate in strada. Gli altri aerei dirottati. Il crollo delle Torri. Pensavo alla mia famiglia. A mia moglie incinta di 8 mesi. Quando entrai piangeva davanti alla tv credendomi morto, e nostro figlio di 2 anni cercava di consolarla carezzandola. Quella scena mi ha sempre fatto pensare a chi non è tornato. Come il collega con cui avevo fatto il percorso in metro la sera prima».
Prego.
«Si chiamava John, lavorava a Cantor e loro, appunto, morirono tutti. Il 10 settembre rientrammo insieme. Aveva comprato delle bistecche. Mi parlò del figlio di 5 anni, amatissimo. Aveva tanti sogni per lui. Conosco molti di coloro che sono morti: ma John resta per me la personificazione della tragedia. Penso sempre a suo figlio, oggi uomo, cresciuto senza il padre che lo amava tanto. Vorrei cercarlo, raccontargli quelle ultime parole d’amore. Ma me ne è sempre mancato il coraggio».
E dopo, come fu?
«Molti hanno chiesto aiuto. Io in qualche modo ho rimosso. Ma so quanto quel giorno ha determinato la mia vita. Il mio matrimonio si è sgretolato e lo capisco. Diventai paranoico. Ossessionato dal terrorismo islamico. La notte avevo incubi terribili. Sognavo fiamme, saltavo dal letto per mantenere la parete convinto che stesse per travolgere la mia famiglia. Ma ripresi presto a lavorare e quello mi costrinse a mettere da parte le emozioni».
Quanto presto?
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«La mia azienda aveva una sede in New Jersey. Volevano farci ricominciare già il 12. Ottenemmo di rientrare il 17. Un anno dopo ebbero la crudele idea di sfruttare gli incentivi della città di New York per ripopolare Lower Manhattan e presero un ufficio proprio a Ground Zero: guardava nella voragine. Ho resistito qualche mese, poi li ho mollati. Sono andato a JP Morgan. Facevo lo stesso lavoro, ma non dovevo passare ogni giorno davanti a quel cimitero».
Vent’anni dopo, come si guarda indietro?
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«Un evento così grande eppure è la tua vita. Non reggo quelle immagini. Ma penso sempre che non ci hanno fermato. E a quanto è ingiusto il terrorismo. Per colpire un simbolo hanno distrutto migliaia di famiglie. Anche per questo oggi ho voluto trovare la forza di riaprire la mia scatola e raccontare. Le generazioni future devono capire. È difficile, fatico coi miei stessi figli. Ma non si deve dimenticare».
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