Con la guerra in Ucraina si riapre il dibattito su come slegarsi dal gas russo e parallelamente cresce anche il timore per eventuali disastri alle centrali nucleari di Chernobyl e Zaporizhzhia. Secondo alcuni partiti e il ministro Cingolani il ritorno all’energia nucleare può essere una buona opzione. Ma resterebbe il problema delle scorie e soprattutto servirebbero reattori che saranno disponibili tra almeno dieci anni.
La guerra in Ucraina ha sollevato il grande tema della dipendenza energetica dell’Europa nei confronti di potenze straniere. In questo contesto, il problema ruota intorno alla Russia, che è oggetto di sanzioni ma da cui proviene ancora oggi circa il 40% del metano utilizzato in Italia.
Anche per questo si è tornato a parlare di energia nucleare, tema che divide l’opinione pubblica fin dall’incidente di Chernobyl del 1986. Secondo alcuni, infatti, il nucleare potrebbe assicurare una maggior autonomia all’Italia, storicamente dipendente da altri Paesi per coprire il proprio fabbisogno energetico.
I problemi del gas
Oggi il gas è una delle fonti energetiche maggiormente utilizzate in Europa. In Italia se ne fa un utilizzo maggiore rispetto alla media europea. Secondo Luca Iacoboni, responsabile delle politiche nazionali del think thank Ecco, gli ultimi cinque governi italiani hanno infatti puntato a rendere l’Italia “un vero e proprio hub europeo del gas”, aumentando il tasso di dipendenza non solo dalla Russia, ma anche dagli altri Paesi da cui viene comprato il gas. Circa il 20% del fabbisogno arriva infatti dall’Algeria, mentre Qatar, Norvegia e Libia completano il quadro con percentuali vicine al 10% ciascuno.
Oggi, se il Cremlino decidesse di chiudere i rubinetti dei tubi che portano il gas in Italia, nel nostro Paese si fermerebbe praticamente tutto. L’impiego di riscaldamenti privati e fornelli dovrebbe essere contingentato e anche moltissime produzioni industriali dovrebbero interrompersi.
Anche per questo – con l’avanzare della possibilità che Putin decida d’interrompere le forniture – l’Italia sta cercando di puntare su altri cavalli. Nei giorni scorsi il Ministro degli esteri Luigi Di Maio ha dialogato con Algeria, Libia e Azerbaijan per trovare nuovi accordi con cui sostituire il gas russo.
Secondo il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani sarà possibile fare a meno della Russia già entro metà anno.
L’occasione per la transizione verde
Poiché il gas è una fonte non rinnovabile da cui liberarsi progressivamente, l’emergenza creata dal conflitto in Ucraina potrebbe costituire un’opportunità per la transizione energetica. Una delle alternative in mano all’Italia è quella accelerare sulle fonti rinnovabili in modo da liberarsi dalla dipendenza dal gas e tagliare le emissioni in un colpo solo.
Parlando alla Camera, il premier Draghi ha detto che il governo “Intende incrementare il gas naturale liquefatto importato da altre rotte, come gli Stati Uniti” e che parte del problema è “il numero ridotto di rigassificatori in funzione”, ossia impianti in grado di riportare dei liquidi al loro stato originario gassoso. Draghi ha anche detto che “è stato “imprudente non aver differenziato maggiormente le nostre fonti di energia”.
Durante il vertice europeo tenutosi a Versailles, Draghi ha anche affermato che la transizione verso fonti rinnovabili “è l’unica strada possibile sul lungo periodo” ma che allo stesso tempo “occorre fare molto di più per favorire gli investimenti nel settore”. Parlando delle ricadute economiche del conflitto in Ucraina, il Presidente del Consiglio ha detto che occorrerà una risposta compatta a livello europeo e che non potranno essere i bilanci nazionali da soli a subire l’impatto.
Uno dei settori da cui prelevare gettito fiscale sarebbero gli extraprofitti ottenuti dalle società energetiche a causa dell’innalzamento dei prezzi: “secondo le stime della Commissione europea una simile misura darebbe un gettito che in Europa potrebbe arrivare a 200 miliardi di euro”.
Il referendum e i nuovi reattori
Un’altra alternativa, avanzata soprattutto da Lega e Fratelli d’Italia, è invece quella di riattivare il nucleare. Il tema – avviato già prima dello scoppio della guerra dal Ministro per la Transizione ecologica Roberto Cingolani – è già stato affrontato con una serie di referendum.
Nel 2011, poco dopo il disastro di Fukushima, un referendum votato dal 57% degli italiani ha sancito l’eliminazione del nucleare, che in Italia era stato prodotto tra il 1963 e il 1990. Ancor prima, nel 1987, i cittadini avevano votato a favore di tre quesiti referendari che nel complesso avevamo molto indebolito i piani di sviluppo nucleari pensati dall’Italia. L’affluenza fu del 65%.
In tempi più recenti però sia Matteo Salvini che Forza Italia che Roberto Cingolani si sono detti disposti a lavorare per una reintroduzione delle centrali nucleari. L’idea è di utilizzare dei reattori attualmente ancora in fase di studio e che verosimilmente non saranno disponibili prima di dieci anni. Si tratta di reattori più piccoli, assemblabili, più sicuri e meno rischiosi anche da un punto di vista finanziario, ma devono ancora finire di essere progettati nei dettagli.
La guerra e i rischi del nucleare
Intanto, anche alla luce dei colpi inflitti dall’esercito russo ai danni di Kharkiv e Chernobyl, è riapparso lo spettro del disastro nucleare. Giovedì 10 marzo la Conferenza delle Regioni ha rivisto il Piano nazionale per la gestione delle emergenze radiologiche e nucleari. Il piano era in aggiornamento da alcuni mesi dopo 12 anni passati in un cassetto, ma la guerra ha determinato un’accelerata definitiva.
Il piano definisce le azioni e i comportamenti da mettere in campo in tre casi Il primo è quello di incidente avvenuto entro i 200 chilometri dai confini nazionali e il secondo è quello di incidente avvenuto a più di 200 chilometri, ma con conseguenze per il territorio italiano. Infine c’è il caso senza conseguenze per l’Italia ma col rischio per gli italiani che si trovano nelle vicinanze.
Oltre alla questione degli incidenti, i problemi del nucleare sono poi legati allo smaltimento delle scorie. Sul tema l’Italia si è dotata di una apposita carta nazionale. A oggi il 75% delle scorie è depositato in Piemonte e l’alta concentrazione ha posto alcuni problemi di infiltrazioni alla falda acquifera. Alcuni pozzi nella provincia di Vercelli (non usati per l’acqua potabile) sono stati infatti contaminati da piccole fuoriuscite di materiale radioattivo, senza provocare però danni alle persone.