Massimo Gaggi per corriere.it/sette
«Gli Stati Uniti resteranno una grande potenza, ma il loro ruolo nel mondo continuerà a ridursi. È un processo che va avanti da anni: non credo che verrà accelerato dal brutto ritiro da Kabul. Né credo che le altre potenze dell’area, soprattutto la Cina, trarranno vantaggi importanti dal vuoto lasciato dagli americani nell’Asia Centrale. Biden ha commesso errori, certo, ma ha avuto il coraggio di fare la scelta giusta assumendosene i rischi.
È il terzo presidente che vuole ritirarsi dall’Afghanistan: i suoi predecessori non l’hanno fatto proprio per il timore di un’uscita caotica. Ma il ritiro era inevitabile: restare non era più sostenibile a meno di non decidere una escalation della presenza militare. C’erano i patti siglati da Trump da rispettare, ma, soprattutto, lo spaventoso aumento delle perdite di vite nell’esercito afghano già prima degli accordi di Doha: insostenibile».
Francis Fukuyama, il politologo e storico americano di origine giapponese che trent’anni fa fece discutere il mondo col suo La fine della storia pubblicato dopo la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’impero sovietico, quando gli Usa non sembravano più avere rivali, analizza con distacco, dalla sua università di Stanford, in California, i drammatici eventi dell’ultimo mese. Non ignora i drammi umani del presente, ma esplora soprattutto il passato remoto e il futuro per cercare di capire le cause di quanto accaduto e cosa possiamo aspettarci ora.
Chi giustifica Biden sostiene che non esistono modi non drammatici e non cruenti di uscire da una guerra persa.
«Certamente il presidente paga il conto di guerre sbagliate o comunque protratte troppo nel tempo».
L’illusione neocon dell’esportazione della democrazia.
«Non solo: il problema principale fu la reazione eccessiva agli attentati dell’11 settembre 2001. La minaccia del terrorismo di Al Qaeda fu molto sopravvalutata, così come fu sopravvalutata la possibilità di ottenere risultati politici usando la forza militare».
Sono passati vent’anni. Dov’era lei quel giorno? Come reagì?
«Allora insegnavo a Washington. L’università era abbastanza vicina al Pentagono e dalla finestra vidi la colonna di fumo dell’aereo fatto precipitare dai terroristi. Uscii e la gente era impazzita. Strade chiuse, tornare a casa fu un incubo durato ore. Eravamo tutti terrorizzati. Non era un attentato come altri. Come quelli degli estremisti palestinesi o dell’IRA nell’Irlanda del Nord: violenza, cattura di ostaggi, trattative.
Qui era diverso: c’era l’evidente obiettivo di fare strage di americani e se un giorno ne avevano uccisi tremila, il giorno dopo ne potevano ammazzare 300 mila o tre milioni. Si cominciò a temere che i terroristi potessero avere accesso ad ordigni nucleari o a una bomba “sporca”, radioattiva, o ad armi batteriologiche. È di quegli stessi giorni anche la minaccia delle buste all’antrace: ci sentivamo assaliti da tutti i lati. Poi abbiamo scoperto che non era così, ma c’è voluto tempo per capirlo.
Guardando ora le cose col distacco degli anni trascorsi, vediamo che fu commesso un grosso errore politico con le invasioni, soprattutto l’Iraq: quella del terrorismo era, in realtà, una minaccia limitata, anche se condotta con azioni spettacolari per la loro ferocia. Abbiamo scoperto che Al Qaeda e gli altri gruppi non solo non erano in grado di procurarsi armi sofisticate, ma non avevano nemmeno un reale peso politico nel mondo arabo».
Gli attentati, comunque, sono stati numerosi, anche in Europa. Poi è arrivato l’Isis, ora diffuso anche in Afghanistan. Non rischiamo una nuova onda di terrore jihadista, magari capace di arrivare negli Usa e di pesare sulle prossime elezioni?
«Non credo. Oggi il terrorismo organizzato riesce a colpire solo in Paesi privi di una solida organizzazione statale, dalla Somalia al Mali. Non ci sono più stati grandi attacchi in Europa e nemmeno negli Stati arabi più strutturati. Talebani che abbandonano il terrorismo solo a parole? C’è chi cita come prova la liberazione dei reclusi delle prigioni afghane. Ma a me risulta che, quando hanno aperto i cancelli, i talebani hanno fatto uscire tutti ma non i capi dell’Isis-K, eliminati con esecuzioni sommarie».
Il ritiro americano lascia comunque un vuoto in Asia Centrale: non ne trarranno vantaggio i Paesi dell’area e le due potenze Cina e Russia?
«Il caotico ritiro americano può avere offerto qualche piccolo vantaggio diplomatico a Pechino e a Mosca, ma non vedremo nulla di simile all’influenza che Urss e Stati Uniti hanno avuto quando hanno occupato l’Afghanistan: nessuno si vuole più avvicinare troppo.
Hanno imparato tutti che quel Paese è come un porcospino: c’è sempre più da perdere che da guadagnare. Poi, certo, la Cina cercherà di stabilire rapporti economici perché il Paese ha importanti risorse minerarie ed è geograficamente collocato in un’area importante per le rotte della Belt & Road Initiative di Pechino. Non mi pare un fattore sostanziale».
Un altro timore: Pechino, imbaldanzita dalla sconfitta e dal ritiro degli Usa, che attacca Taiwan. Possibile?
«Possibilissimo e io lo temo da tempo, ma non credo che un eventuale detonatore possa essere l’Afghanistan. La Cina non ha mai fatto mistero di puntare alla piena sovranità sull’isola. Sperava di arrivarci in modi pacifici, ma ormai Taiwan è una potenza economica e la brutale repressione a Hong Kong rende uno sbocco concordato impraticabile. Non so come finirà. So che Biden ha giustificato il disimpegno da Kabul anche con la necessità di concentrare l’attenzione sul contenimento dei grandi avversari degli Stati Uniti. Mi auguro che sia così, ma non so se riuscirà».
Taiwan è strategica per l’Occidente, soprattutto per la fornitura di microchip. Davvero rischia l’invasione? E gli Usa, da sempre impegnati a difenderla, resterebbero a guardare?
«La Cina ha la forza militare per riprendersi l’isola. Non credo che in caso di attacco gli Stati Uniti si impegnerebbero in una vera guerra. Il punto, quindi, è capire se quello che l’America sta facendo, e farebbe ancora di più in caso di attacco, per armare l’isola sarà un deterrente sufficiente a fermare la Cina. Io sono piuttosto pessimista».
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In un saggio scritto per l’Economist lei si dice convinto che crisi e ritirata dell’America dipendano dai suoi problemi interni – la polarizzazione, l’involuzione dei processi democratici – assai più che dalle turbolenze nei rapporti internazionali. Non considera di per sè un dramma la fine dell’egemonia Usa – i periodi di unipolarismo sono eccezioni nella storia del mondo – e si augura che il Paese, recuperata coesione, riesca a mantenere, in partnership con altri, il mondo su un binario pacifico e di valori democratici condivisi. Poi, però, parlando dei problemi degli Usa, utilizza un termine definito: metastasi.
«È vero, c’è un cancro che divora l’America: la sua polarizzazione interna. Il problema principale viene dai repubblicani: un partito impazzito. Era internazionalista, mentre ora i più considerano i vaccini parte di una cospirazione globale contro gli Stati Uniti: una follia. Gli americani non si sono mai fidati molto dei governi, ma ora siamo passati dallo scetticismo a teorie cospirative insensate, eppure condivise da molti. Poi si diffonde anche una pericolosa radicalizzazione a sinistra che, se prende piede, minerà l’identità nazionale.
Guardi la disputa che contrappone il 1619 al 1776, l’anno dell’indipendenza, come origine della nazione: è lo scontro tra chi crede che l’America sia fondata sulla battaglia per la libertà e chi ritiene che sia stata costruita sulla schiavitù. Così il progetto di democrazia multirazziale nato dopo l’era dei diritti civili va in frantumi».
È a rischio anche il soft power dell’America, quell’influenza, teorizzata da Joseph Nye, che affascinava il mondo, legata a un insieme di valori democratici e fattori culturali, alla musica, alla letteratura, alla tecnologia, alle suggestioni di Hollywood?
«L’erosione del soft power dell’America non è cominciata di certo a Kabul: è un processo che va avanti da almeno 7-8 anni. Aggravato da Trump che ha deliberatamente sabotato la reputazione degli Usa nel mondo. Ferite che Biden promette di curare. Non so se riuscirà, anche perché l’anno prossimo con ogni probabilità perderà, almeno alla Camera, la maggioranza della quale oggi gode in Congresso. Vedo più rischi di paralisi che opportunità di rinascita».
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