Domenica 5 febbraio entrerà in vigore l’embargo sui prodotti petroliferi raffinati in Russia. La misura vuole limitare le entrate di Mosca, ma potrebbe avere un impatto sui prezzi di benzina e diesel, già cresciuti dopo la fine dello sconto sulle accise.
Torna lo spettro dei rincari su diesel e benzina. Proprio quando l’inflazione inizia a dare segnali di rallentamento (si veda il grafico sotto) che ammorbidiscono la stretta delle banche centrali sui tassi di interesse. A mettere benzina sul fuoco potrebbe essere l’embargo ai prodotti petroliferi russi che entra in vigore da domani, domenica 5 febbraio. La misura, decisa a livello europeo, vuole ridurre le entrate della Russia ma rischia di avere conseguenze sui prezzi.
Perché l’Unione europea produce meno diesel
Come spiega Il Sole 24 Ore in edicola sabato, l’Unione europea non ha abbastanza capacità di raffinazione per essere autosufficiente anche per la svolta verde imposta dalla Commissione. Una politica che ha disincentivato gli investimenti nella raffinazione dell’oro nero: nessuno punterebbe su un prodotto che, secondo i piani di palazzo Berlaymont, verrà sempre meno utilizzato in futuro.
Non va inoltre dimenticato che, secondo quanto previsto dal pacchetto Fit for 55, dal 2035 non potranno essere più venduti auto e furgoni nuovi con motori a combustione interna. Un divieto che disincentiva chi vorrebbe costruire nuove raffinerie in Europa. Fino a poco tempo fa, la Russia soddisfaceva il 40% del fabbisogno di gasolio dell’Unione: da domenica bisognerà sostituirlo con prodotti che vengono da più lontano e quindi costano di più. “Se i russi non riuscissero a vendere altrove tutti i prodotti raffinati che producono, allora potrebbe esserci una scarsità“, aveva detto ad upday Carlo Stagnaro, direttore ricerche e studi dell’Istituto Bruno Leoni. E scarsità in economia fa rima con rincaro.
Il tetto al prezzo dei prodotti petroliferi
Venerdì 4 febbraio i Paesi dell’Unione hanno inoltre introdotto un tetto al prezzo dei prodotti petroliferi esportati dalla Russia. L’obiettivo è limitare gli incassi di Mosca senza creare strozzature nei commerci internazionali che potrebbero far salire i prezzi. In sostanza, le società occidentali di assicurazione, trasporto e di altri servizi possono occuparsi di prodotti petroliferi lavorati – non solo estratti – in Russia solo se sono stati comprati ad un prezzo inferiore ad una certa cifra. Che è pari a 100 dollari al barile per i prodotti più pregiati (tra cui il diesel, ndr) e a 45 dollari per quelli venduti a sconto sul greggio, come l’olio combustibile e la nafta. Previsto anche un periodo di transizione di 55 giorni per le vendite cominciate prima del 5 febbraio.
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La possibile contromossa del governo
Un rincaro di benzina e diesel potrebbe paradossalmente beneficiare lo stesso Stato italiano. Come si vede dai due grafici sopra e sotto, più della metà del prezzo è data da accise e imposta sul valore aggiunto. E l’Iva porta con sé maggiori ricavi se cresce il prezzo della materia prima. Per questo, il governo a gennaio ha reintrodotto la cosiddetta “accisa mobile”: una misura che prevede che se da questo eventuale aumento del prezzo all’ingrosso è derivato un incremento del gettito Iva, lo Stato può – non è obbligato a farlo – utilizzare le maggiori entrate per ridurre le accise. In sostanza, ha promesso di intervenire se il prezzo del petrolio salirà ancora.
Il doppio precedente
Il 5 dicembre era entrato in vigore il tetto al prezzo del petrolio russo trasportato via mare: 60 dollari al barile. Una sanzione applicata dal G7 con l’Australia, che era accompagnata ad un embargo del greggio russo da parte dell’Unione europea. L’Ungheria aveva però ottenuto delle esenzioni. Secondo diverse fonti sentite dal Financial Times, con la collaborazione di Iran e Venezuela la Russia avrebbe ammassato oltre cento vecchie petroliere per aggirare l’embargo: una vera e propria flotta ombra. Il Brent, il principale indice europeo per il petrolio, era salito dopo l’introduzione delle due misure ma è poi sceso nuovamente.