Il cobalto viene utilizzato per produrre la maggior parte delle batterie che alimentano apparecchi elettronici come smartphone e computer, ma anche automobili. Questo metallo dalla polvere blu parzialmente radioattiva viene estratto da persone, spesso bambini, che lavorano in condizioni di sfruttamento. Ne abbiamo parlato con Giulia Cicoli, direttrice advocacy della ong ‘Still I rise’.

Il computer che usiamo per scrivere, le auto e le biciclette elettriche, ma anche lo smartphone con cui leggiamo questo articolo sono prodotti utilizzando il cobalto, un metallo fondamentale per le batterie, come quelle agli ioni di litio.

Se lo smartphone arriva dal centro commerciale vicino casa, non si può dire lo stesso per il cobalto usato per la sua batteria, che arriva il più delle volte dalla Repubblica democratica del Congo. Nel Paese dell’Africa centrale questo metallo è ovunque, con giacimenti perfino sotto ai pavimenti delle case. Basti pensare che più della metà del cobalto venduto nel mondo è estratto in Congo, una terra ricchissima di materie prime e di diamanti. Un’abbondanza che si scontra però con la povertà di un Paese in cui sette persone su dieci vivono con meno di un euro 50 euro al giorno e molti sono bambini.

Chi c’è dietro alla batteria dei nostri smartphone

La filiera è lunga. “La persona che estrae il cobalto lo vende a un commerciante locale che a sua volta lo vende ad aziende minerarie finché poi il cobalto viene portato in altri Paesi, come la Cina (Pechino è il cuore della produzione di cobalto, ndr), dove viene venduto a una fonderia, che a sua volta lo vende a chi fa i componenti delle batterie che lo commercia a chi fa batterie che, infine, le vende al venditore ultimo di telefoni o quant’altro”, spiega ad upday Giulia Cicoli, direttrice advocacy di Still I rise, organizzazione indipendente che offre istruzione e protezione ai minori profughi e vulnerabili e che nella Repubblica democratica del Congo ha creato una scuola di riabilitazione per i bambini minatori.

Sono oltre 40mila quelli che lavorano nelle miniere di cobalto, scavando per dodici ore al giorno la roccia a mani nude e trasportando sacchi di pietre spesso più pesanti di loro. Tutto questo per guadagnare uno o due euro al giorno, a seconda del giudizio dei commercianti che pagano in base al peso e alla purezza dei minerali estratti. Per questi bambini, che spesso fanno gruppo e si organizzano in gang per vendere il metallo prezioso, l’infanzia non esiste, ma esiste solo la sopravvivenza, anche se spesso è compromessa. Nel sud del Paese, dove si concentra la maggior parte dell’estrazione mineraria, si registra il tasso più alto di mortalità infantile del mondo: un bambino su cinque muore prima di compiere il quinto anno di età.

La richiesta di cobalto aumenta ogni giorno

È dal 2016 che le associazioni mondiali denunciano queste condizioni (Amnesty International aveva avviato una petizione e la Cnn aveva svolto un’inchiesta sulle condizioni umane dei minatori di cobalto), ma la situazione è ancora la stessa. “Nulla cambia se non si smuovono le istituzioni”, dice Cicoli. “Stiamo andando giustamente verso una transizione ecologica con fonti di energia più verdi e quindi si investe molto nell’elettrico e di conseguenza la richiesta di cobalto aumenta. Si parla infatti di un aumento di cinque volte entro il 2030 e di 15 volte entro il 2050. L’estrazione di questo metallo però avviene senza l’uso di protezioni contro le polveri che sono parzialmente radioattive, avviene in condizioni di abusi, di sfruttamento minorile, dove nessun diritto umano e ambientale viene rispettato”.

Cosa rischiano i minatori di cobalto

Ogni giorno chi scava il cobalto “rischia di ferirsi in modo serio a lungo termine, ma si rischia anche la vita a causa di crolli di tunnel”, spiega Cicoli, “inoltre si riscontrano molti problemi legati alla salute delle persone: da quelli respiratori causati dalla polvere radioattiva, fino a febbre e tifo che derivano dallo stare nell’acqua sporca a pulire il cobalto. Si forma inoltre un corollario di abusi: altri bambini vengono sfruttati per vendere acqua o cibo ai minatori, c’è un giro di prostituzione minorile, avvengono stupri, gravidanze indesiderate, aborti in condizioni non sicure e malattie sessualmente trasmissibili”.

Cosa fa l’associazione

Still I Rise ha all’attivo diverse scuole in Paesi con esigenze e problemi differenti. “In Congo abbiamo aperto una scuola mirata ad aiutare quei bambini che hanno perso anni scolastici a causa del lavoro in miniera. Con un piano di tre anni, li prepariamo a sostenere un esame per rientrare nel percorso scolastico del Paese e poter proseguire la loro carriera di studi”. Le famiglie dei bambini sono favorevoli al percorso perché “da un lato non vogliono che i figli facciano la stessa vita, dall’altro forniamo loro l’equivalente di quello che guadagnerebbero i bambini nelle miniere. Diamo alle famiglie pacchi di cibo, pacchi igienici e abbiamo un bus che li accompagna a scuola e li riporta a casa”.

“Firmate la petizione perché farà davvero la differenza”

Al momento i distributori finali, “per vendere in Europa devono dare solo una lista delle aziende da cui hanno comprato le batterie. Quello che noi chiediamo è che ci sia una certificazione per cui il cobalto non arrivi dallo sfruttamento dei diritti umani. Vogliamo che venga svolta una verifica della filiera in tutti gli step e che tale verifica sia fatta da un’entità esterna e indipendente alle aziende”, spiega Cicoli.

Quello che Still I rise chiede è di “firmare questa petizione. Sembra un gesto inutile ma non lo è. Se arriviamo a tante firme, le istituzioni capiranno che alla gente interessa. È successo già in passato con i corridoi umanitari. Noi vogliamo che i minatori lavorino con protezioni sul lavoro, che i loro diritti umani siano rispettati e che siano pagati il giusto. Vogliamo che l’individuo singolo abbia una rendita giusta per il prodotto che estrae ma che non venga sfruttato”, conclude.

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