Denunciare un maltrattamento non è facile e spesso non si trovano istituzioni competenti. È il caso di Erica Patti, i cui figli sono stati uccisi dall’ex marito, nonostante lei avesse denunciato. Rispetto a quel periodo, oggi le leggi si sono rafforzate, ma il percorso di denuncia è ancora un calvario. In occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, l’avvocata Concetta Sannino ed Erica Patti spiegano ad upday come funziona l’iter della denuncia e perché è sempre giusto denunciare.
“Ho denunciato dieci volte ma oggi i miei figli non ci sono più”, racconta ad upday Erica Patti, la donna che il 16 luglio del 2013 perse i suoi due figli, Andrea (13 anni) e Davide (9 anni), uccisi barbaramente dall’ex marito. L’episodio è stato il culmine di maltrattamenti e minacce di cui la donna è stata vittima in vent’anni di relazione e peggiorati dopo la separazione. Erica ha sporto dieci denunce in un solo anno che, racconta, “sono rimaste inascoltate dai carabinieri, dal pubblico ministero e dagli assistenti sociali”.
Cosa è cambiato in dieci anni
Erica non vuole generalizzare. Da quando i suoi bambini sono morti e lei ha fondato la sua associazione, Dieci action, che aiuta altre donne vittime di maltrattamenti, dice che “sono nate reti antiviolenza a cui partecipano anche forze dell’ordine e assistenti sociali molto in gamba“.
Dal 2013 l’attenzione al tema della violenza di genere è cresciuta e anche la legge ha fatto passi in avanti. Quella n. 119 del 15 ottobre 2013 ha portato all’applicazione di una nuova misura pre-cautelare sui soggetti che commettono violenza di genere; si tratta dell’allontanamento urgente dalla casa familiare, con la possibilità di arresto immediato nel caso in cui si venga colti in flagranza a commettere maltrattamenti o atti persecutori. Inoltre, tra le altre novità, con la legge del 19 n. 69 dal 2019 è stato introdotto il “Codice Rosso” che prevede una corsia preferenziale per le denunce riguardanti casi di violenza contro donne o minori. Le leggi ci sono ma non sempre vengono applicate nel modo e nei tempi previsti e quindi per le donne che denunciano la strada non è semplice.
Quando le donne denunciano
“È difficile che una donna denunci spontaneamente”, spiega l’avvocata Concetta Sannino. “Nel caso di violenza psicologica o economica, si fa fatica a comprendere che si tratta di un maltrattamento. Oppure, in presenza di figli, si è meno incisive. Una volta che si è fatto un percorso di consapevolezza, ad esempio con un centro antiviolenza, è più probabile che si depositi una querela”.
Secondo il report ‘La vittimizzazione istituzionale’ di D.i.Re (Donne in rete contro la violenza) tra le donne supportate da 109 centri antiviolenza, solo tre su dieci (il 27%) scelgono un percorso giudiziario. Tra i motivi che frenano le donne a denunciare: la scarsa fiducia nelle istituzioni, la paura, il timore del giudizio e la sottovalutazione da parte delle donne stesse della violenza. La maggior parte dichiara anche di vivere condizioni traumatiche riconducibili alle procedure istituzionali poste in atto dal momento della denuncia.
Erica Patti ha iniziato a denunciare quando il marito ha minacciato di morte anche i figli. “Un anno prima dell’accaduto lui mi aveva detto che prima o poi li avrebbe portati in vacanza e li avrebbe ammazzati”, racconta la donna che spiega come avrebbe voluto fare una denuncia al giorno, ma “i carabinieri mi avevano detto di prendere un’agenda, di appuntarmi quello che succedeva e tornare quando avrei avuto più materiale, così avremmo fatto una denuncia con dentro tutto”.
Come fare la denuncia
La denuncia può essere fatta sia rivolgendosi ai carabinieri, che alla polizia e “può essere scritta dalle forze dell’ordine o dalla donna che poi la presenta”, spiega l’avvocata Sannino. Nel caso di stalking, violenze in famiglia e violenza sessuale c’è una corsia preferenziale: “Entro tre giorni dal deposito della querela, bisogna aprire il fascicolo. Quindi il pubblico ministero deve iniziare le indagini, sentire la donna e imporre determinate misure, se necessario. Nella realtà però non è sempre così perché nei tribunali arrivano pile di codici rossi e non c’è il personale formato a gestirli”.
Chi può denunciare
Oltre alla donna stessa, con l’introduzione del Codice rosso la denuncia può essere presentata da terzi, anche in anonimato: “La forma anonima significa che il nome di chi denuncia non sarà rivelato all’imputato, ma la denuncia mette in condizione il pubblico ministero di fare le indagini”, spiega l’avvocata Sannino. “È un espediente per aiutare chi non ha il coraggio di denunciare. Dopo la denuncia anonima, le forze dell’ordine chiamano la donna in questione e le chiedono se vuole proseguire”.
Cosa succede dopo
Di solito, quando si decide di fare una denuncia per maltrattamento, “dopo un certo periodo di tempo questa viene assegnata a un pubblico ministero che fa in modo di interrompere il ciclo della violenza”, ci spiega l’avvocata Sannino. La donna che denuncia non ha quasi mai una sistemazione alternativa in cui andare; inoltre ha figli, un lavoro e quindi scappare diventa impossibile. Quando il compagno scopre di essere stato denunciato, può essere che la donna sia ancora in casa con lui e ciò può scatenare reazioni.
Le donne vengono messe in sicurezza quando c’è l’arresto in flagranza o, ad esempio, se vanno al pronto soccorso e fanno una denuncia di violenza: “Se la donna chiede di essere messa in sicurezza viene mandata in una casa rifugio di passaggio e, dopo la situazione di immediata emergenza, si allertano i vari servizi d’aiuto. Se anche successivamente la donna non ha una sistemazione, esistono le case protette o a residenza stabile che la ospitano per più tempo“, continua l’avvocata.
Non sempre le istituzioni sono preparate
Una cosa davvero importante è come scrivere la denuncia: “Devono esserci tutti gli estremi di un principio di prova per meglio sottolineare alcuni aspetti che sono fondamentali al riconoscimento del reato”, spiega l’avvocata. Il suo consiglio nasce dal fatto che “non sempre chi riceve una denuncia di violenza ha la giusta preparazione per scrivere una querela che rispetti i canoni così come sono sono previsti dalla legge. Se la denuncia non è esaustiva, il pubblico ministero che la riceve può decidere di procedere con la richiesta di archiviazione“.
Erica Patti racconta di come, nel suo caso, le denunce sarebbero state minimizzate: “Quando ho denunciato per stalking nel 2012 i carabinieri non sapevano di cosa si trattasse, nonostante la legge sullo stalking esista dal 2009 e avrebbero dovuto conoscerla”. E, ancora, quando a gennaio del 2013 è stato preso un provvedimento di allontanamento perché l’ex marito aveva puntato una pistola al padre di Erica e a lei, “i carabinieri mi hanno detto che si trattava solo di una scacciacani“. O, nuovamente, quando “ho fatto l’ultima denuncia perché i miei figli non c’erano più, il carabiniere che era presente era lo stesso che poco prima mi aveva detto che il mio ex marito era tutto fumo e niente arrosto”.
Questa superficialità la donna l’avrebbe riscontrata anche negli assistenti sociali: “Hanno fatto una sola chiamata il giorno in cui il mio ex non mi ha riportato a casa i bambini e, quando ormai non c’erano più e all’assistente sociale ho chiesto perché non fosse andata fisicamente e vedere come stavano, mi risposto: ‘Signora, con il senno di poi’“. Errori che ancora oggi Erica Patti non sa a chi attribuire perché, nonostante “io abbia fatto richiesta di tutti i tabulati tra gli assistenti sociali e il tribunale, non ho ottenuto ancora nulla”.
“Spero che la mia storia serva alle istituzioni e alle donne”
I problemi che sussistono ancora oggi, secondo l’avvocata Sannino, sono principalmente tre: “Non si crede mai fino in fondo alla situazione che vivono queste donne, c’è un’inversione di ruolo: le vittime e i figli vengono fatti uscire di casa e si ritrovano la vita stravolta, mentre quella di questi uomini resta uguale. Infine, molte delle misure pensate per gli uomini non funzionano“.
È il caso, ad esempio, dell’allontanamento che, secondo quanto racconta Erica Patti, non sarebbe mai stato rispettato dal suo ex compagno e sarebbe stato limitante per lei e la sua famiglia: “Non potevamo andare dove andava lui. Così, ad esempio, visto che lui portava mio figlio a calcio e mio papà era l’allenatore, mio padre ha dovuto smettere di allenare”.
L’ex compagno di Erica Patti è in carcere ma il “prossimo anno potrebbe beneficiare di permessi premio. Se esce viene a cercarmi per finire quello che ha iniziato, lo aveva detto a me e a mio padre”. Ora Erica ha un figlio di quattro anni e ha paura anche per lui: “Spero che la mia storia sia da monito a tutte le istituzioni per non sbagliare di nuovo e spero che possa aiutare altre donne a non restare in silenzio, a denunciare subito e a non aspettare”, conclude.
Abbiamo fatto richiesta all’Arma dei carabinieri per un’intervista in merito ma ci è stata negata.