A sette anni dal suo ultimo ‘The Pink Album’, Immanuel Casto torna sulla scena musicale italiana con il suo nuovo disco ‘Malcostume”. Il cantante, game designer e icona del movimento Lgbtq+ racconta ad upday la sua evoluzione artistica, ai tempi del monopolio degli algoritmi e della corsa al “politicamente scorretto”.
“La provocazione è una spezia, ma per aver senso deve accompagnare un messaggio, altrimenti rimane fine a se stessa”. È partito lo scorso 12 giugno dal Circolo Magnolia di Milano il suo “Casto Divo Summer Tour”, sei date per portare in giro in Italia, oltre ad alcuni dei suoi brani iconici come ‘Zero carboidrati’, i singoli del suo ultimo progetto, prodotto da Stefano “Keen” Maggiore e Romina Falconi. I temi sono in parte gli stessi che hanno caratterizzato i suoi 15 anni di produzione artistica, ma qualcosa è cambiato. Dal monopolio dei social ai nuovi trend della politica, i mutamenti in atto nella società hanno influenzato il suo stesso modo di fare arte.
Per te cosa significa essere un “artista impegnato”?
“Per rispondere a questa domanda partirei da una premessa: l’arte è anche intrattenimento, e non c’è assolutamente nulla di sbagliato in questo, anzi io sono un estremo difensore della leggerezza. Da sempre combatto contro lo stereotipo che distingue ‘arte bassa’ da ‘arte alta’ in base al registro dell’artista, e quindi solo il drammatico è vera arte. Per me “impegnato” è l’artista che oltre all’intrattenimento vuole portare degli spunti di riflessione attraverso il proprio punto di vista. Eppure, paradossalmente oggi questo può essere un rischio per lo stesso artista. In una società polarizzata, costruita per bolle ideologiche, avere un punto di vista su un certo tema rischia di porti in una di queste bolle, allontanando tutta una fetta di mercato. Prendiamo ad esempio gli artisti mainstream, anche quelli più progressisti, spesso e volentieri sposano certe idee, ma lo fanno nelle storie di Instagram, mai nei loro dischi”.
Perché oggi non ti rivedi più nella definizione di “artista politicamente scorretto”?
“Nasco come ‘artista politicamente scorretto’, perché fin dall’inizio mi sono schierato contro il perbenismo e il moralismo. Volevosemplicemente dire le cose come stavano. Oggi però non mi rivedo più in questa definizione. Negli ultimi anni si è venuta a creare quasi una corsa al politicamente scorretto con finalità che non condivido, soprattutto da parte di certe aree della politica che usano questa categoria come uno strumento per attaccare alcune categorie sociali svantaggiate o discriminate. Questo non mi sta bene e non voglio che il mio nome venga associato a persone simili.
“Per me la provocazione è sempre stata una spezia – continua Immanuel Casto – c’è a chi piace abbondare, c’è chi la gradisce ma in piccole dosi. Ma rimane pur sempre una spezia, che ha senso perché accompagna una pietanza. Ecco oggi alcuni politici e alcuni esponenti dell’intrattenimento servono solo la provocazione, senza nessun contenuto e messaggio. Non è il ‘politicamente scorretto’ che intendo io e che voglio fare sia con la mia musica e che con i miei giochi”.
Hai raccontato che in diverse occasioni sei stato costretto a rivedere i testi e i titoli delle tue canzoni per non incappare negli algoritmi ed essere penalizzato dal punto di vista delle visualizzazioni. Secondo te siamo di fronte a una forma di censura?
“È inutile girarci attorno, qualsiasi artista vorrebbe sentirsi totalmente libero, ma è oggettivo che i social impongono delle limitazioni alla produzione artistica, non solo per quanto riguarda la musica. Un esempio: l’anno scorso ho creato un gioco da tavola che abbiamo deciso di chiamare “Witch and Bitch”. Ora, la parola “bitch”, che fa a tutti gli effetti parte del vocabolario inglese, ma ci ha creato tantissimi problemi: a causa di quella parola non riuscivamo in nessun modoa sponsorizzarlo sui social. Se non vuoi avere questo genere di problemi, devi rispettare le leggi dei social. Ma il vero problema è un altro: anche volendo adeguarsi alle logiche degli algoritmi, praticamente è impossibile farlo”.
Non esistono delle norme? O dei regolamenti pubblici?
“Assolutamente no. È la prima volta in vita mia che assisto a un paradosso del genere: il fatto che esista una realtà così importante, com’è appunto quella del mondo social, che è a tutti gli effetti un monopolio culturale ma anche economico, di cui non è dato conoscere i meccanismi di funzionamento. Non esiste un ufficio e non c’è modo di parlare con nessuno: è a tutti gli effetti una multinazionale, quasi un monopolio, senza uno sportello al pubblico. È allucinante, è un problema su cui si dovrebbe intervenire con delle leggi”.
Hai toccato un punto interessante. Da sempre ti sei posto come “icona del mondo Lgbtq+”, ora siamo nel mese del Pride e sembra che tutte le aziende siano pronte a difendere i diritti di queste categorie. Ma è davvero così? In questi dieci di attività hai visto le cose cambiare davvero?
“Posso essere sincero? No. Mi spiego meglio: l’approccio che abbiamo adottato in questi ultimi anni, di derivazione prettamente americana, ci ha permesso di ottenere un potere di influenza formalmente molto forte. Gli effetti li vediamo benissimo in queste settimane con tutte le aziende che si brandizzano a tema Pride. O ancora nella produzione di due colossi quali Netflix e Amazon Prime che non fanno altro che far uscire serie tv a tema Lgbtq+, femminismo, integrazione o qualsiasi altro prodotto in difesa delle minoranze. Ma nella vita reale di tutti i giorni non è cambiato praticamente nulla.
Quella che abbiamo ottenuto non è un’influenza culturale, ma un’egemonia culturale. Un pieno controllo, che sarebbe logico aspettarsi possa produrre dei risultati nell’agenda politica progressista. Invece no, basta fare esempio: matrimonio egualitario, possibilità di adottare, eutanasia, su questi argomenti non abbiamo ottenuto nulla di concreto. Questo perché non siamo riusciti a creare un vero dialogo, una vera sensibilizzazione, se non sui giovanissimi. Ma soprattutto per quanto riguarda le fasce demografiche che attualmente votano, bisognerebbe agire concretamente sull’educazione. Un conto è fare un carosello su Instagram, un conto è modificare un programma ministeriale. Ecco, sul piano delle azioni politiche, siamo semplicemente immobili”.