BANDO ALLE GUANCE – LA CINA PRONTA ALL’ENNESIMA STRETTA, QUELLA SUGLI INTERVENTI COL BOTOX, DEFINITO UNA “TOSSINA MENTALE”: LA MORSA DEL PARTITO COMUNISTA SI ABBATTERÀ SULLE SOCIETÀ DI CHIRURGIA ESTESTICA CHE SI SONO ARRICCHITE SUL DESIDERIO DI MOLTI CINESI DI RITOCCARSI E PURE DI SEMBRARE UN PO’ MENO ORIENTALI – È L’ULTIMA FIALA DI TOTALITARISMO DIGITALE: DOPO I GIOCHI ONLINE, ALIBABA E IL TUTORAGGIO SCOLASTICO, PECHINO ESTENDE IL MODELLO DEL “CAPITALISMO DI SORVEGLIANZA”…
Claudio Antonelli per “La Verità”
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Nei giorni scorsi Il Quotidiano del Popolo è andato in edicola con un lungo editoriale contro gli interventi di chirurgia estetica, soprattutto quelli a base di botulino. La testata di Pechino, primigenia espressione del pensiero del Partito e di Xi Jinping ha definito il botox una «tossina mentale». L’uscita ha scatenato un dibattito anche in tivù.
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O per meglio dire una serie di commenti univoci mirati a rafforzare l’editoriale e mettere in discussione la scelta estetica e il business sottostante. Un chiaro segnale che la prossima morsa del Pcc si abbatterà sulle società che si sono arricchite sul desiderio di molti cinesi di ritoccarsi e pure di sembrare un po’ meno orientali. Le prime reazioni sono arrivate dai numerosi fondi di private equity che hanno investito miliardi nel comparto.
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Un esempio su tutti, riporta Bloomberg, tocca il fondo emiratino Mubadala che nel 2019 ha investito in una società coreana, Hugel, una cifra vicina al miliardo e mezzo di dollari. Hugel vende i propri di botox per 85 dollari a Seul, un prezzo basso per via della saturazione del mercato, mentre negli Usa si arriva a 400 dollari per le stesse quantità.
L’obiettivo di Mubadala era però conquistare la Cina, mercato in forte espansione ma con grandi marginalità di crescita. Ora i fondi sono già pronti a tirare i remi in barca, consapevoli che gli investimenti di lungo termine sono molto complessi dentro la Grande Muraglia. D’altronde lo si era capito con il caso Alibaba, ma anche con quello delle app di mobilità modello Uber.
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In entrambi i casi, il partito è subentrato per evitare che il modello di business diventasse troppo grande per poter essere controllato. Alibaba si sarebbe sostituito alla banca centrale, per capirsi. Ma l’approccio totalitario di Pechino non ha nulla a che vedere con il vecchio concetto regolatorio dell’antitrust americano.
Anzi le autorità cinesi sono consapevoli di sacrificare interi castelli di ricchezza e di mettersi in contrasto con i grandi flussi finanziari. Lo fanno pur di mantenere le redini del proprio modello di «capitalismo di sorveglianza».
Lo stesso principio che viene applicato per limitare le ore di utilizzo dei giochi online. Ma anche per mettere al bando le società di tutoraggio scolastico che nel corso degli ultimi anni hanno accumulato ingenti ricchezze, ma al tempo stesso creato un nuovo percorso educativo. Inutile dire, non accettabile per il partito.
Così, le principali quattro società del comparto sono state nazionalizzate nell’arco di una settimana e il mese successivo tutte le istituzioni scolastiche hanno dovuto inserire frasi motivazionali dei vertici del partito e le elementari hanno adottato il libro di Xi, dal titolo «Pensiero di Xi Jinping». Non è difficile immaginare la trama.
Tanto meno le mire: semplificare le nozioni e appiattirle in modo da rendere le persone sempre meno capaci di analizzare i dati e formare un pensiero pieno di subordinate. L’obiettivo del totalitarismo digitale è portare all’ennesima potenza quanto studiato e sviluppato dalle grandi società della Silicon Valley.
Non solo la possibilità di usare gli algoritmi per vendere i prodotti e tarare le pubblicità sugli occhi di chi la vede, ma anche usare l’algoritmo per anticipare i desiderata e renderli nostri. Lo Stato tecnologico mira ad applicare lo stesso concetto a tutti i dettami del vivere e superare il problema di fondo del capitalismo di sorveglianza. A minare la perfezione dell’algoritmo c’è il libero pensiero.
Chi riuscirà a incanalare pensieri e opinioni dei cittadini in modelli binari avrà realizzato il tremendo obiettivo. Se l’algoritmo non coglie tutta la realtà, va modificata la realtà perché entri nei binari dell’algoritmo. Lungi da noi essere complottisti. La storia insegna che spesso non c’è la volontà di singoli dietro a una spinta sociale.
Analizzare, però, le dinamiche è necessario, così come sollevare una serie di dubbi sull’utilizzo della tecnologia digitale da parte degli Stati. E se non ci permettiamo di fare la predica al modello cinese, riteniamo doveroso denunciarne i pericoli di annientamento della privacy per evitare che il modello venga utilizzato anche in Occidente. Dove chiaramente c’è un buco di potere per via della profonda crisi del sistema delle democrazie parlamentari.
E a molti può far comodo sfruttare questi perversi «vantaggi» della digitalizzazione per fare politica o stare al potere. In fondo, l’estensione del green pass a logiche non sanitarie è la leva perfetta per fare il primo passo.
Con la tecnologia si porta la burocrazia dentro le case degli italiani. E nonostante i «veri liberali» ci spieghino da anni che questo è il futuro perché sarà tutto più semplice, gli stessi forse per via del conflitto di interessi delle loro consulenze omettono che sarà invece peggio perché i danni della burocrazia diventeranno benchmark di riferimento incancellabile.
La scorsa settimana, il sindaco di Genova, Marco Bucci, spiegava in una intervista che in realtà i domiciliati presso il Comune sono più dei residenti (in tutto 700.000 tolti i turisti). Ammettendo candidamente che per estrarre il dato sono state incrociate le utenze telefoniche.
Immaginate quando ci sarà l’euro digitale e per stabilire chi paga l’Imu e dove si userà semplicemente lo smartphone dei contribuenti. E farà fede la geolocalizzazione, anche nel caso in cui sarà sbagliata. Cosa che spesso avviene. Distopia? Forse no. D’altronde la pandemia ci sta mostrando il volto cool dello Stato etico e da lì al capitalismo di sorveglianza pubblico è un attimo.