“È DIFFICILE SOSTENERE CHE LO SMART WORKING ABBIA SALVATO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE” – BELPIETRO: “MOLTI DIPENDENTI PUBBLICI NON HANNO INTENZIONE DI RINUNCIARE ALL’UFFICIO CASALINGO, DI LASCIARE LE PANTOFOLE E IL PIGIAMA PER RIMETTERSI LA CRAVATTA. E DUNQUE, ALL’ANNUNCIO DI RENATO BRUNETTA, ABBIAMO ASSISTITO A UNA VERA E PROPRIA LEVATA DI SCUDI. LA RIVOLTA IN PANTOFOLE HA TROVATO OVVIAMENTE SOLIDALI SINDACALISTI ED EX SINDACALISTI E TRA QUESTI MARCO BENTIVOGLI, EX SEGRETARIO DELLA FIM, CHE…”
Maurizio Belpietro per “La Verità”
Da anni penso che il sindacato, che ho avuto modo di conoscere da vicino lavorando per un breve periodo all’ufficio studi della Flm, rappresenti uno dei principali freni per lo sviluppo e la crescita del Paese, in quanto ogni innovazione ogni cambiamento, ogni richiesta di flessibilità, sono osteggiate dai delegati confederali in nome della difesa dei diritti acquisiti. A confermare la mia opinione sui cosiddetti rappresentanti dei lavoratori è la recente difesa dello smart working nel settore pubblico.
Mentre tanti dipendenti delle imprese private, nell’ultimo anno e mezzo, hanno conosciuto la disoccupazione e la cassa integrazione, gli impiegati statali si sono abituati ad apprezzare l’impiego agile e, nonostante il Paese stia uscendo dall’emergenza imposta dalla pandemia, non hanno alcuna intenzione di rinunciare alle comodità del lavoro nel salotto di casa. Ovvio.
Poter lavorare in pantofole, senza alcun effettivo controllo dell’orario di lavoro, cioè senza più l’odioso obbligo di dover timbrare il cartellino, è una inaspettata conquista che nelle austere stanze ministeriali non sarebbe possibile. Pensate solo a quante battaglie sono state fatte nel corso degli anni, da Raffaele Costa a Renato Brunetta, per evitare che il dipendente lasciasse la propria postazione per andarsene a fare shopping.
L’attuale titolare della Semplificazione e amministrazione pubblica, negli anni passati addirittura propose di mettere i tornelli per impedire che gli impiegati si dedicassero agli affari loro nell’orario d’ufficio. Tutti poi abbiamo avuto sotto gli occhi le immagini di vigili in mutande mentre timbrano il cartellino o di infermieri che, invece di essere in corsia, se la spassano in riva al mare. Certo, non tutti i dipendenti pubblici sono così, ma credo che volendo raccogliere gli episodi sui furbetti del cartellino oggetto di indagini delle Procure si potrebbe scrivere un libro. Tuttavia, anche la più inefficiente amministrazione pubblica nell’ultimo anno e mezzo ha dovuto fare i conti con la pandemia e dunque ha introdotto il lavoro da casa. Sia chiaro: non lo ha fatto per migliorare e rendere più spedite le cose.
Ha adottato lo smart working per evitare che gli uffici diventassero incubatori di virus, contagiando il personale. Come sia andata lo sappiamo tutti: l’Italia era bloccata dal lockdown e anche i ministeri, che già di loro vanno a rilento, si sono bloccati, congelando le pratiche e affidando i servizi essenziali dello Stato, delle Regioni e dei Comuni al lavoro agile, che io definirei lavoro fragile, nel senso che le funzioni erano decentrate in cucina o in salotto, garantite da connessioni precarie, da piattaforme poco accessibili e dalla disponibilità dell’impiegato. Diciamo che è stato un modo per far fronte all’emergenza, una soluzione improvvisata che non sempre ha funzionato, ma che forse in quei mesi era inevitabile.
Adesso però che l’emergenza si è conclusa, anche se qualche vedovo inconsolabile dei dpcm non vede l’ora di rinchiuderci di nuovo in casa, molti dipendenti pubblici non hanno intenzione di rinunciare all’ufficio casalingo, di lasciare le pantofole e il pigiama per rimettersi la cravatta. E dunque, all’annuncio di Renato Brunetta di un prossimo ritorno alla normalità, perché se si vuole riprendere il Paese ha bisogno di una amministrazione pubblica efficiente e non di una burocrazia borbonica, abbiamo assistito a una vera e propria levata di scudi.
renato brunetta foto di bacco (11)
La rivolta in pantofole ha trovato ovviamente solidali sindacalisti ed ex sindacalisti e tra questi Marco Bentivogli, ex segretario della Fim, la federazione dei metalmeccanici della Cisl, il quale, insieme a un docente del Politecnico, ha vergato su Repubblica un articolo per magnificare lo smart working come strumento che può salvare la pubblica amministrazione. Secondo l’ex leader confederale, se svolto in cucina il lavoro è uno strumento di modernizzazione, perché «oltre a favorire benessere e conciliazione, spinge i lavoratori a una maggiore autonomia e responsabilizzazione sui risultati».
Non so dove Bentivogli abbia scorto la responsabilizzazione, mentre immagino che cosa gli abbia fatto ritenere che il lavoro agile abbia favorito il benessere e la conciliazione. Non credo però che il compito della pubblica amministrazione sia quello di garantire il wellness e la serenità: a quello ci pensano le Spa. In compenso, mi limito a osservare ciò che ha scritto qualche tempo fa il Sole 24 Ore a proposito dello smart working.
Pur riconoscendo che una parte dei dipendenti ha reagito con entusiasmo, il quotidiano confindustriale precisava che «data l’età media elevata dei dipendenti e la scarsa o pessima attività di riqualificazione, è naturale che emerga del personale poco utilizzabile o in eccedenza. Parola triste quest’ ultima, che compare durante le grandi trasformazioni, ma impronunciabile nel settore pubblico. Arduo parlare di un incremento generalizzato della produttività, anche perché il governo ha adottato, tra le tante misure, la sospensione dei termini dei procedimenti amministrativi».
marco bentivogli foto di bacco
Traduco: molte pratiche sono rimaste nel cassetto e altrettanti dipendenti sono rimasti a letto. Dunque, è difficile sostenere, come fa Bentivogli, che lo smart working abbia salvato la pubblica amministrazione. Capisco che l’ex sindacalista voglia difendere i «diritti acquisiti» e che, dopo anni trascorsi a rivendicare meno orario e più salario, oggi la sua nuova ridotta sia il tinello, ma se proprio desidera difendere lo smart working faccia come in America, dove i grandi gruppi, a chi chiede di continuare a lavorare da casa, presentano il conto, ossia un taglio del 25 per cento dello stipendio. Del resto, le comodità si pagano.
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