“ERO TORMENTATA DA UN INCUBO: ERO INCINTA E PARTORIVO PEZZI DI UN MOTORE. HO PENSATO CHE FOSSE INTRIGANTE LEGARE ENTRAMBI QUESTI ELEMENTI AL MITO DI GAIA E URANO, DALLA CUI UNIONE SONO NATI I TITANI” – LA REGISTA JULIA DUCOURNAU RACCONTA “TITANE,” IL FILM CHE HA SCIOCCATO IL PUBBLICO DEL FESTIVAL DI CANNES E HA VINTO LA PALMA D’ORO – “VOLEVO IMITARE UN CERTO SGUARDO MASCHILE CHE EQUIPARA LE DONNE ALLE AUTOMOBILI, MOSTRANDO CHE ENTRAMBE SONO TRUCCATE, TIRATE A LUCIDO, SEXY” – VIDEO

Marco Consoli per “Il Venerdì”

 

julia ducournau cannes 2021. julia ducournau cannes 2021.

«Mentre stavo finendo il mio primo film Raw- Una cruda verità, ho pensato che nel successivo avrei voluto raccontare una storia d’amore. In quei giorni ero tormentata da un incubo: ero incinta e partorivo pezzi di un motore a scoppio. Mi sembrava una bella immagine e ho pensato che fosse intrigante legare entrambi questi elementi al mito greco di Gaia, la dea della Terra, e a Urano, il dio del cielo, dalla cui unione sono nati i Titani. In francese usiamo la e per declinare i sostantivi al femminile e così ho preso la parola Titan, che vuol dire Titano, e l’ho trasformata in Titane, titanio, per ottenere un chiaro riferimento al mondo dei motori». 

raw una cruda verita di julia ducournau raw una cruda verita di julia ducournau

 

Julia Ducournau riassume così la genesi complessa di Titane, il film che ha scioccato il pubblico del festival di Cannes e fresco di Palma d’Oro sarà nelle sale il 30 settembre, dopo l’anteprima italiana in programma il 21 a Roma nel rinnovato Cinema Troisi, nato dall’esperienza del Piccolo America. 

 

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Non c’è da sorprendersi che al secondo tentativo la 37enne regista parigina, figlia di medici e diplomata in sceneggiatura nella prestigiosa scuola di cinema La Femis, sia riuscita a vincere a Cannes, diventando tra l’altro la seconda donna nella storia del festival ad aggiudicarsi il premio più ambito dopo Jane Campion nel 1993 per Lezioni di piano: la critica sulla Croisette si è divisa tra chi considera Titane solo un divertente horror e chi grida al capolavoro, ma è certo che sono state riconosciute l’audacia visiva e l’originalità dei temi rispetto ad altri film più tradizionalisti. 

 

julia ducournau sharon stone cannes 2021. julia ducournau sharon stone cannes 2021.

Dopo aver mandato all’ospedale alcuni spettatori, svenuti durante la proiezione al festival di Toronto di Raw, storia di una studentessa vegetariana che diventa cannibale dopo essere stata costretta in un rito d’iniziazione della scuola di veterinaria a mangiare il fegato di un coniglio, Ducournau racconta ora la storia di Alexia (Agathe Rousselle), una ballerina che a seguito di un incidente d’auto subìto da bambina ha una placca di titanio inserita nel cranio. 

 

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Ingaggiata in un motor-show per danzare in abiti succinti tra le auto insieme ad altre ragazze, Alexia viene molestata da un giovane e per difendersi da un possibile stupro lo uccide. È solo l’inizio di un’escalation di violenza e omicidi che costringeranno la donna a fuggire dalla polizia e a tentare di cambiarsi i connotati per sembrare un maschio e rifugiarsi a casa di un pompiere (Vincent Lindon) che da molti anni cerca il figlio scomparso, prendendone il posto. 

 

«Mi è capitato, come a molte altre donne, di essere palpeggiata in metropolitana contro la mia volontà», ci dice Ducournau «e ho pensato che a chi lo fa non viene mai in mente che potrei avere una pistola nella borsetta e sparargli all’istante. Odio questo cliché secondo cui le donne sono vittime e gli uomini carnefici, perché condiziona il modo in cui tutti condividiamo gli spazi pubblici. Per questo ho immaginato un personaggio femminile terrificante: per mostrare che la violenza può provenire da chiunque. Anche se così mi sono messa nei guai da sola…». 

 

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Perché? 

«Perché non è stato facile scrivere una storia in cui la protagonista è una donna fredda, che parla poco, violenta. A me non interessa giudicarla moralmente, però è difficile che il pubblico ami una psicopatica. Ma sono convinta che le persone provino emozioni prima ancora di riflettere, e così l’unico modo per avvicinare la mia protagonista agli spettatori era attraverso il suo corpo e ciò che prova fisicamente: per questo ho filmato la scena in cui si rompe il naso contro un lavandino. Tra l’altro è lo snodo che permette al personaggio di evolvere e ritrovare la propria umanità attraverso l’incontro con un pompiere che cerca disperatamente il figlio. Questo è anche un film sulla paternità, in cui c’è un padre, quello di Alexia, distante, e un altro, interpretato da Vincent Lindon, che è quasi ripugnante nel modo in cui tratta quella che crede essere il proprio figlio: toccandola e spogliandola per metterla a letto quasi fosse un bimbo piccolo, per la prima volta la fa sentire guardata». 

 

Lindon è straordinario in quel ruolo. Ha accettato subito? 

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«Sì, perché gli ho detto che lo avevo scritto pensando a lui e che volevo mostrarlo in una chiave inedita. Gli ho detto che avrebbe dovuto apparire nudo, mentre si inietta steroidi, ma questo non lo ha preoccupato quanto la scena in cui avrebbe dovuto ballare. Gli ho detto di lasciarsi andare, di muoversi e di pensare solo a se stesso». 

 

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In quella scena in cui appare davanti allo specchio, è immerso in una luce quasi da night club. Che ruolo ha la fotografia in questo film? 

«Volevo ribaltare gli stereotipi di genere e per questo l’ho avvolto in una luce rosa, molto sensuale. Il mondo delle auto è spesso descritto con toni freddi e scuri e con riflessi lucidi, io volevo qualcosa di più organico, sensoriale. Abbiamo estremizzato il contrasto dei colori, al punto da sfiorare uno stile da cartoon, e così pure l’uso della macchina da presa a mano, per stare addosso ai corpi dei personaggi e alle auto. Non ho la patente, ma le macchine mi hanno sempre intrigato. Le loro parti meccaniche mi fanno pensare a pezzi di organi umani». 

 

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A proposito di auto, perché nel film ha messo in scena il motor-show in cui i corpi femminili vengono esibiti insieme alle carrozzerie? Voleva criticare un accostamento tipico delle fiere di settore? 

«Volevo imitare un certo sguardo maschile che equipara le donne alle automobili, mostrando che entrambe sono truccate, tirate a lucido, sexy. Poi però Alexia si sottrae a questo sguardo e reclama il possesso del proprio corpo e del desiderio per l’auto su cui danza e, guardando dritto negli occhi gli spettatori, fa capire che non è più lei l’oggetto. Lei è il soggetto attivo». 

 

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Lo è al punto che si fa possedere da una Cadillac. È stato difficile lavorare con Agathe Rousselle, qui al debutto in un lungometraggio, a quella scena così audace? 

«Sono molto diretta con i miei attori. Agathe era preoccupata per il nudo, ma l’ho messa a suo agio, girando quella scena con una troupe ristretta in cui c’erano quasi solo donne. Dato che non aveva molta esperienza, abbiamo lavorato per quasi un anno insieme al personaggio: la parte più difficile è che parlando poco, Alexia doveva esprimere quasi tutto con la mimica facciale. Ho cercato di prepararla a esprimere le emozioni con monologhi tratti da Twin Peaks, Quinto potere e altri film». 

 

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Qualcuno ha definito Raw – Una cruda verità e Titane due horror. A lei piace il genere? 

«Mi ha sempre divertito molto, ho guardato moltissimi film dell’orrore, belli e brutti, ma è molto difficile per me trovarne uno che mi faccia davvero paura. Anche perché da quando faccio la regista so come si creano i trucchi e la sospensione dell’incredulità va a farsi benedire». 

 

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I suoi film ha effetti speciali notevoli e, suppongo, nella trasformazione del corpo di Alexia fa un ampio uso di protesi al silicone. 

«Ho sempre usato protesi in tutti i miei cortometraggi e lungometraggi ed ogni volta che ne finisco uno mi dico: mai più. Poi però ci ricasco e li riutilizzo, perché quando lavori con le protesi gli attori se le sentono addosso, percepiscono la trasformazione del corpo, mentre quando usi solo effetti visivi la recitazione diventa artificiosa. Però poi ci sono mille problemi, soprattutto se non hai un grande budget e i tempi delle riprese sono ristretti. Per esempio se si scollava la protesi di Agathe, ci voleva un’ora e mezzo per aggiustarla. Quindi abbiamo lavorato come potevamo, poi ci hanno pensato gli artisti digitali a ritoccare le immagini dove necessario. Ma nella scena finale penso che tutto il lavoro di chi ha trasformato Agathe ci abbia decisamente pagato».

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Redazione Dagospia