PER ANDARE IN INGHILTERRA NON BASTA PIU’ IL PASSAPORTO – LE NUOVE REGOLE SULL’IMMIGRAZIONE POST BREXIT IMPONGONO DI AVERE ALMENO DUE DOCUMENTI D’IDENTITA’ E IL “SETTLED STATUS”, UNA SPECIE DI RESIDENZA PERMANENTE CHE ANDAVA RICHIESTA ENTRO GIUGNO – IL CORRISPONDENTE DEL “CORRIERE” DA LONDRA, LUIGI IPPOLITO: “LA SENSAZIONE E’ QUELLA DI ESSERE DEGLI OSPITI A STENTO TOLLERATI, CONTINUAMENTE SOTTOPOSTI A VERIFICA, SEMPRE IN BILICO SUL CRINALE DELL’ILLEGALITA’…”
Luigi Ippolito per il Corriere.it
CONTROLLI DI SICUREZZA IN AEROPORTO
«Gli europei sono i benvenuti, vogliamo che restiate qui!»: così almeno ha sempre assicurato il governo di Boris Johnson, malgrado Brexit. Ma adesso che le nuove regole sull’immigrazione in Gran Bretagna sono diventate effettive, sbarcare a Londra significa aggirare uno slalom di controlli e invischiarsi in procedure kafkiane.
Ieri mi è capitato di tornare nella capitale britannica dopo un lungo soggiorno in Europa. E già all’imbarco del volo c’è la prima sorpresa: come italiano il passaporto non basta, mi chiedono pure un secondo documento. Meno male che ho con me anche la carta d’identità: ma da quando in qua il passaporto non è più sufficiente?
«È la Brexit…», spiega serafico l’addetto di Easyjet. Ma è all’arrivo all’aeroporto di Luton che le cose si complicano davvero. L’addetto ai controlli non sembra affatto contento di vedere il passaporto italiano: «Hai il diritto di stare qui?», mi chiede seccamente. «Puoi provarlo?».
Il problema è che adesso, a meno che non si venga per semplice turismo, per sbarcare a Londra occorre un visto, oppure si deve avere il settled status, una specie di residenza permanente (o la pre-residenza, se si è qui da meno di cinque anni). Io ce l’ho e lo faccio presente: ma il funzionario mi chiede di dimostrarlo.
E qui sono dolori: perché il governo britannico si è sempre rifiutato di fornire un documento fisico che lo certifichi, è tutto registrato soltanto online. «C’è il database…», provo a obiettare. Ma l’occhiuto controllore non si smuove: «Hai almeno con te una email?», chiede.
Meno male che, prima di partire, per eccesso di zelo, mi sono stampato la email dell’Home Office di due anni fa che registrava l’accettazione del mio «pre-settled status»: ma il bello è che in essa si specifica che quella non rappresenta affatto una prova, bisognerebbe accedere ogni volta al database. Però il funzionario dell’aeroporto la vuole vedere lo stesso e sembra accontentarsi: anzi, la ripiega con cura nel passaporto e mi ammonisce a non viaggiare mai senza.
Ma se invece l’avessi cestinata, visto che per le autorità britanniche è in realtà ininfluente? Mi avrebbero forse respinto alla frontiera? È un dilemma che riguarda tutti i sei milioni di europei — e fra di essi oltre mezzo milione di italiani — che hanno ottenuto il settled status (o pre-settled): la difficoltà a dimostrarlo può comportare problemi anche per ottenere un lavoro o affittare una casa, perché non tutti sono al corrente della procedura da seguire. Oltre ai fastidi e ai rischi che si incontrano quando si rientra nel Regno Unito.
Le associazioni che rappresentano gli europei hanno protestato, scritto petizioni al governo: ma finora è stato tutto inutile. Soprattutto, però, dopo la Brexit si ha la sensazione di essere degli ospiti a stento tollerati, continuamente sottoposti a verifica, sempre in bilico sul crinale dell’illegalità. E potrebbero essere molte migliaia quegli europei che non hanno fatto in tempo domanda per il settled status (i termini sono scaduti a fine giugno) e che adesso si trovano in un limbo legale, tecnicamente privi di ogni diritto.
L’ironia è che il funzionario che mi ha fatto il terzo grado all’aeroporto era di origine sudasiatica: un segno di quanto la Gran Bretagna sia un Paese multi-etnico e multiculturale che ha sempre fatto dell’apertura al mondo la sua forza. Ma che ora tratta proprio i suoi vicini europei con ostentata diffidenza.