Con l’avvio dell’anno accademico torna, come di consueto, la questione del precariato nel mondo universitario. Un problema che coinvolge circa 210mila persone, da tempo invisibili agli occhi della politica. Un quadro a pochi giorni dal voto.

Il precariato in università è traducibile in una sola parola: ricerca. Si tratta di una platea di sessantamila cervelli cui la politica cerca di rivolgersi in queste ore che ci separano dal voto del 25 settembre. Numeri davvero esigui se paragonati a quelli del mondo della scuola. Stando agli ultimi dati ufficiali del Portale Unico dei Dati, conta 210 mila precari, di cui 163 mila donne. Negli ultimi mesi, in materia università, molte grosse novità sono state introdotte grazie al Pnrr e agli interventi di governo, in particolar modo con il dl 36/2022, convertito nella legge 79/2022 che introduce nuovi percorsi per la figura del ricercatore. Percorsi che però richiederanno del tempo per essere messi a regime dagli atenei italiani. Da destra a sinistra i partiti parlano di “maggiori investimenti”, di riportare in Italia “i cervelli” fuggiti all’estero, ma nulla di più. Non c’è un progetto politico, non c’è un solo partito che abbia mostrato reale interesse per la categoria. upday ne ha parlato con Tito Russo, responsabile del precariato universitario del centro nazionale della Flc-Cgil.  

Qual è la situazione in università?

Se parliamo del pre 25 settembre, la campagna elettorale parla del cervello in fuga, investimenti in innovazione e ricerca in maniera molto generica. Non ci sono progetti, non ci sono finanziamenti che ci dicano cosa fare, come fare e quando. Ogni volta che si parla di ricerca si fa un generico riferimento ai fondi del Pnrr, tirati in ballo per qualunque cosa.

Qualcosa è stato già fatto?

In realtà un pezzo di Pnrr è stato già speso. Verso ottobre 2021 abbiamo avuto dei primi fondi investiti su progettualità di innovazione tecnologica e green che hanno finanziato parecchie posizioni di ricercatori a tempo determinato di tipo A e dottorandi. Come sindacato abbiamo criticato questa cosa in quanto mentre il parlamento stava discutendo la riforma del reclutamento, almeno in teoria per evitare sacche di precariato, se ne è creata una nuova. Parecchi dottorandi indipendentemente dal ciclo sono diventati direttamente ricercatori a tempo determinato sfruttando i bandi del Pnrr.

Cosa contiene il dl 79?

Introduce alcuni elementi positivi e negativi che andranno ad impattare adesso, nei prossimi mesi, anche se ci sarà un periodo transitorio che può durare tre o quattro anni gli atenei dovranno adeguarsi alle novità. Innanzitutto, è stato trasformato l’assegno di ricerca che è ora un contratto di ricerca biennale determinato. Costa di più perché vale quanto quello di un ricercatore a tempo definito (parliamo di circa 200/300 euro netti in busta in più) più un lordo amministrazione. In secondo luogo, è stato messo un vincolo all’ultimo minuto secondo cui gli atenei non possono spendere per gli assegni più della media della spesa storica dell’ultimo biennio. Questo vuol dire, da nostri conti, che un terzo di assegnisti non verrà rinnovato. Non lo diciamo solo noi, ce lo ha confermato anche l’entourage del ministero.

Cosa andrebbe fatto?

Noi ci poniamo come obiettivo quello di togliere questo vincolo in legge di bilancio per non creare problemi alla didattica anche se noi premiamo perché l’assegno scompaia. Di certo non possiamo far sparire l’assegno facendo sparire fisicamente gli assegnisti, ma stabilizzandoli.

C’è poi la figura del ricercatore senior

Altro aspetto è la nuova figura di ricercatore senior RTT, con un percorso di sei anni a cui dovrà dare seguito una fase transitoria che permetta a chi ha tre anni di assegno o RTD-A di accedervi con un salto al secondo o terzo anno. Devono esserci bandi pari al 25 per cento di transitorio del precariato storico per assorbire, appunto, il precariato storico. E’ poco ma prima non c’era neanche questo e quindi è una cosa positiva anche se in misura minore. Darà la possibilità di avere scontistica nei sei anni per conseguire l’abilitazione. Al terzo anno potrai convertirti ad associato a professore di seconda fascia.

In questo modo però si rischia di non raggiungere mai i colleghi europei?

Si tratta di unico contratto ma nonostante questo i sei anni sono tanti, pensavamo ad un percorso più breve che consentisse di diventare professore a 35 anni e non a 60 almeno per tenere la media europea. Ci sono 60 mila persone in università tra finte partite iva e RTD-B, è un fenomeno dilagante e crescono le docenze a contratto. La politica non sa nemmeno che esistano delle partite iva in università e poi credo che il problema di fondo sia che non interessa dei cervelli perché c’è un sistema che permane e che è fatto di bandi e concorsi che resta sulla carta e che mette distanza tra la donna e l’uomo di strada e l’ateneo.

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