Nell’ottobre del 1943, nei giorni più drammatici dell’occupazione nazista in Italia, una malattia sconosciuta e contagiosa iniziò a circolare nel centro di Roma: la sindrome di K, che si rivelò fin da subito un incubo per i tedeschi, ma che fu la salvezza per decine di cittadini ebrei della Capitale. Perché si trattava di un morbo fittizio, di una malattia inesistente!

 

La storia di come una finta malattia riuscì a fare leva sulle ipocondrie dei soldati della Gestapo è stata raccontata da Adriano Ossicini, politico italiano, antifascista e membro della Resistenza, e confermata nel 2004 dal medico ebreo Vittorio Sacerdoti in un’intervista alla BBC, in occasione del 60esimo anniversario della Liberazione di Roma dall’esercito tedesco (4-5 giugno 1944).

 

In questi mesi segnati dai timori della pandemia da covid, fa un certo effetto rileggere le loro testimonianze.

la retata nel giorno del riposo. All’alba del 16 ottobre 1943, sabato (il giorno del riposo per gli ebrei), le truppe tedesche fecero irruzione nel ghetto di Roma per un rastrellamento mirato degli appartenenti alla comunità ebraica romana, reso possibile dall’elenco dei loro nominativi forniti dal Ministero dell’Interno del governo Mussolini. Furono sequestrate 1.024 persone (di cui 200 bambini), poi deportate al campo di sterminio di Auschwitz. Solo in 16 sopravvissero per raccontare quegli eventi. In quelle ore drammatiche molte famiglie cercarono rifugio nel vicino Ospedale Fatebenefratelli, sull’Isola Tiberina.

 

Vittorio Sacerdoti era un giovane medico di 28 anni quando, con l’aiuto del primario, Giovanni Borromeo, e di alcuni combattenti antifascisti, mise a punto un piano per nascondere il maggior numero possibile di ebrei prima che venissero rastrellati dalla Gestapo.

 

vietato entrare. I medici iniziarono ad ammettere i fuggitivi in ospedale, diagnosticando ai neoricoverati una pericolosa – e inesistente – malattia, la sindrome di K: un’espressione che stava per “morbo di Kesserling”, il generale nazista incaricato di mantenere il controllo dell’Italia occupata e difenderla dalle truppe Alleate che avanzavano da sud – e K era anche l’iniziale di Herbert Kappler, il tenente colonnello delle SS a capo della Gestapo a Roma che guidò la retata. Ma per i tedeschi la sindrome di K evocava la malattia di Koch, ossia la tubercolosi: i militari ne erano terrorizzati. 

 

I medici intimarono di non accedere ai reparti dove erano ricoverati i contagiosi pazienti. «Il giorno in cui i nazisti arrivarono in ospedale», racconta Sacerdoti, «qualcuno venne nel nostro studio e disse: “Dovete tossire, tossire continuamente perché questo li spaventa, non vogliono contrarre una pericolosa malattia e non entreranno. I nazisti pensarono che fosse cancro o tubercolosi, e scapparono come conigli.»

Il luogo del ricovero. Non sappiamo quanti “pazienti” furono salvati da morte certa, grazie al coraggio e all’astuzia dei medici: le testimonianze raccontano di almeno 45 persone, ma potrebbero essere state decine di più. In seguito, l’ospedale romano, che aveva alle spalle una lunga tradizione di protezione dei perseguitati, fece installare nei suoi sotterranei una radio per le comunicazioni con il Comando Alleato di Brindisi. Quando si sparse la voce che i nazisti sarebbero venuti a cercarla perché sapevano delle trasmissioni, la radio fu gettata nel Tevere.

 



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