L’indagine sui tre commercialisti si allarga: i pm vogliono capire se il sistema sia più ramificato di quanto appaia. Ma il segretario non spiega: chi ha scelto quei professionisti?

(Foto: Miguel Medina/Afp)

L’inchiesta sui commercialisti della Lega, partita dalla compravendita gonfiata dell’immobile di Cormano (Milano) rivenduto alla Lombardia Film Commission guidata da uno del trio (Andrea Di Rubba), continua a lievitare. Le intercettazioni di uno dei professionisti finiti agli arresti domiciliari, Michele Scillieri, schiudono di fronte agli occhi dei pm di Milano Eugenio Fusco e Stefano Civardi un sistema ben più ramificato di circolazione dei fondi. Un fascicolo d’indagine che Il Fatto Quotidiano definisce giustamente “mastodontico” e nel quale fanno capolino altre figure, come l’imprenditore ed ex artigiano Francesco Barachetti. L’obiettivo è capire se, oltre al capannone di Cormano, esistano altri “affari” simili, che percorsi abbiano fatto i soldi e quale fosse la provenienza. Se, insomma, esistesse uno schema consolidato che, applicato con l’aiuto e la complicità di differenti comprimari, prendeva la Lega come riferimento, anzi come vero e proprio hub per certi versi perfino da spolpare (“Hanno ciucciato una montagna di soldi alla Lega, una montagna!” dice Scilieri), per favorire questa circolazione, magari con le coperture di altri direttori di banca compiacenti come Marco Ghilardi della Ubi di Seriate, licenziato per aver omesso di segnalare operazioni anomale.

Intercettazioni e dettagli dell’inchiesta a parte, che d’altronde devono ancora posarsi e chiarirsi, un fatto è evidente: Matteo Salvini è oggettivamente nel pallone, su questa storia. “Su due degli arrestati garantisco io” ha spiegato giorni fa, per poi pronunciare simili parole giusto ieri. Ci mancherebbe: Andrea Manzoni è stato revisore contabile del Carroccio, così come Alberto Di Rubba, e nello studio bergamasco con Manzoni risultano fra i soci pezzi grossi del partito come il tesoriere Giulio Centemero e il senatore Stefano Borghesi. Negli anni la coppia Manzoni-Di Rubba ha inoltre guadagnato posizioni importanti sia in organizzazioni collegate alla Lega (Pontida-fin) che in enti pubblici (Manzoni ha per esempio un incarico in Ats Milano). Su di loro, insomma, sarebbe stato impossibile replicare la caduta dal pero messa in scena con la storia dell’hotel Metropol di Mosca, Gianluca Savoini e i contatti con il Cremlino, indagine a dire il vero ben più fumosa di quella attuale.

C’è di più: sembra quasi un “non detto” che aleggia sullo sfondo, ma l’arresto dei tre commercialisti e del cognato di uno di essi ha di fatto riaperto il vaso di Belsito, quello dei 49 milioni di euro di rimborsi elettorali spariti nel nulla (anzi, spariti per le spese del clan Bossi e nei diamanti della Tanzania). Sembra da una parte un sistema simile, e non è un caso che nelle furibonde intercettazioni uno dei tre – Scillieri – addirittura si riferisca a quella montagna di quattrini stornati dalla loro destinazione, e dall’altra l’ultimo capitolo di un enorme gomitolo che continua a inseguire la Lega anche se cambia nome, leader, ragione sociale e simbolo a causa di chi ci lavora e collabora col partito e i gruppi parlamentari. Dentro e fuori.

Salvini avrebbe bisogno di percorrere un’altra strada, sull’ultima inchiesta. Ci sono delle responsabilità che gli cadono addosso senza pietà: non fossero quelle di aver scelto certe persone e aver messo loro in mano la cassaforte del partito. Dando per scontata la buona fede del segretario, non si sente “tradito” da queste persone? Non trova che la Lega possa per assurdo configurarsi come parte lesa, in questa storia (su questo punto ci furono contraddizioni anche nei processi per i 49 milioni)? E non crede di dover dare delle spiegazioni a sé stesso e agli altri? Anche se la gente “là fuori”, come dice lui, ha altro da pensare. Vero. Ma le questioni non si escludono, a maggior ragione se ci sono soldi in qualche modo pubblici. Come erano pubblici i 49 milioni di euro.

Non è un caso che, dopo anni di distrazioni di massa, la nuova linea su quel malloppo abbia ora virato verso l’approccio lapalissiano: “Per anni abbiamo pagato gli stipendi, gli affitti, sostenuto campagne elettorali: dei costi enormi. E poi, ho dovuto chiudere Radio Padania, il giornale La Padania, abbiamo rinunciato a tanti dipendenti. I soldi non si trovano perché non ci sono più, possono cercare ovunque” ha detto ieri l’ex ministro dell’Interno. Eppure nel 2018 spiegava che “è un processo politico, che riguarda fatti di 10 anni fa su soldi che io non ho mai visto”. Ma se oggi può dire che sono stati spesi, ne ha evidentemente contezza: i suoi commercialisti (e qui verrebbe anche un po’ da ridere se non ci fossero di mezzo fondi pubblici) potranno documentarlo in modo molto preciso. Servono spiegazioni, non basta più la retorica televisiva. Un leader maturo riconoscerebbe che servono anzitutto a lui. E a noi, che rivedremo quei soldi fra un’ottantina di anni, in comode minirate annuali.

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