Gli aggettivi si sprecano. Mai tanti per un uomo solo. Tutti conoscevamo bene Marco Pannella. Un giorno mi dette appuntamento alla fontana del Moro in piazza Navona per andare insieme all’ambasciata di Francia per un’intervista sulla mafia.

Ci fecero domande scontate e rispondemmo con distrazione in buon francese. Quando uscimmo da Palazzo Farnese, Marco mi disse: io sono venuto qui per te, non per il dibattito. Basta fare il cane sciolto. Vieni con noi. Così andammo in un buen retiro sulla via Aurelia insieme con lo stato maggiore radicale. In quelle ore si materializzò l’operazione Rutelli (allora radicale e molto legato a Pannella) sindaco di Roma, inaspettatamente sponsorizzata (…)

(…) da Repubblica e da Eugenio Scalfari, il quale detestava, detestato a sua volta, Marco Pannella fin dai tempi in cui fondarono il partito radicale da sponde lontane. Ma Scalfari, che non lo amava, seguiva con attenzione i numerosi digiuni di protesta di Pannella e io andavo spesso a intervistarlo anche in ospedale. Fu allora che mi spiegò la regola del cappuccino per sopravvivere al digiuno: bisogna prima mettere su qualche chilo di troppo e poi sedare la fame col cappuccino.

L’operazione Rutelli non mi piacque e abbandonai il buen retiro lasciando una nota di spiegazione. Da allora non mi volle più parlare. Ci siamo però incontrati altre volte e lo trovavo sempre più incattivito, vanitoso oltre la soglia del sopportabile e gelosissimo di chiunque potesse dargli ombra. Come Saturno, mangiava i suoi figli politici. Il suo protagonismo lo spinse a compiere la restaurazione che portò Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale dopo Cossiga. Anche allora tutti applaudirono. Pannella adorava essere adorato e non metteva freni ai suoi umori. Da Radio Radicale aggrediva chi gli stava sullo stomaco in quel momento con una facondia straripante e irosa come quella di Fidel Castro.

Gli vanno certamente riconosciuti grandi meriti: la sua battaglia per il divorzio, contro la Dmocrazia cristiana di Amintore Fanfani e il cattolicissimo partito comunista che non ne voleva sapere, con il vigoroso sostegno di una pattuglia di socialisti libertari come Loris Fortuna e Mauro Mellini, fu un grande servizio civile reso al Paese, anche se preparò l’inevitabile sfascio della famiglia patriarcale e borghese che si era retta per secoli su uno stabile ed ipocrita compromesso.

La battaglia per l’aborto fu sanguigna, ma consegnò alle donne piena libertà sessuale, grazie anche alla pillola contraccettiva per cui si batté lo psicologo «esistenziale» e rivoluzionario Luigi De Marchi. Di cose ottime Marco ne fece molte, come imporre i passaggi sui marciapiedi per le persone con handicap e la difesa di tutti coloro che apparivano brutti sporchi e cattivi: carcerati, criminali, latitanti, chiunque desse fastidio ai benpensanti come i protagonisti delle canzoni di Georges Brassens che adorava. Il primo Pannella aveva davanti a sé, negli anni Sessanta e Settanta, un Paese arretrato, occhiuto, ostile al nuovo e reazionario nella stessa sinistra che non digeriva Pannella né Pasolini. E neanche Sciascia, che fu uno dei più limpidi deputati radicali: l’uomo che dette l’allarme contro il professionismo dell’antimafia, perché se tutto è mafia, nulla è mafia.

Infine, ebbe il merito di essere libertario oltre che liberale (dalle origini) e libertino intellettualmente. Non gli hanno mai perdonato, a sinistra, il suo avvicinamento a Berlusconi (un marchio indelebile per i salotti buoni) perché pochi ne hanno capito la ragione autentica. Berlusconi era ed è una testa matta, uno che spariglia, rovescia il tavolo e fa tutto ciò che le convenzioni condannano. E su questo terreno s’incontrarono perfettamente e immediatamente.

L’enorme ego narrante di Pannella lo spingeva e lo costringeva a parlare con tutti, politici e non, specialmente con i malfamati. Ma più che dialogare predicava, aspettandosi che tutti lo seguissero. E poiché non tutti lo seguivano, si infuriava con sfuriate apocalittiche e irragionevoli. Tutti i vecchi tassisti di Roma l’hanno conosciuto bene, lui e le persone con cui era passionalmente coinvolto, perché Pannella era molto appassionato, sia in politica che nelle relazioni umane. L’ombra dei pettegolezzi sulle sue passioni si è allungata fino alle ultime ore della sua vita, conclusa in un mare di dolore fisico che ha affrontato con rabbiosa caparbietà.

L’ultima volta che l’ho sentito irato e tonante fu ad un convegno nell’abbazia di Farfa, nell’Alto Lazio, in Sabina, in un’aula conventuale. Non ricordo perché era arrabbiato. La rabbia e l’asimmetria nei giudizi erano il suo motore. Appena morto, giornali e televisioni si sono scatenati in una paradossale charachter assassination alla rovescia: lapidato dagli elogi, imbalsamato nella melassa mediatica. Era già accaduto con Casaleggio, persona che in molti consideravamo un pericolo per la democrazia parlamentare, ma che fu dichiarato santo subito, senza tante storie. Aggiungo la mia personale opinione su Marco Pannella: ufficiale e gentiluomo, era rivoluzionario ed opportunista. Essere opportunisti nella politica politicante non è un demerito ma neanche un titolo di santità. Era uno che credeva sinceramente nella libertà, era libero libertario e libertino, ma era anche un amabile e insopportabile tiranno per chi gli stava accanto.

di Paolo Guzzanti per il Giornale.it