Prima della pandemia orari massacranti e compensi bassi non hanno mai spaventato le migliaia di lavoratori stagionali. Dopo i primi due anni di Covid-19 e la frenata imposta al turismo, molti di loro hanno trovato altri impieghi, più stabili e meglio remunerati ma, soprattutto, con più tutele.
Si è riaccesa la polemica sul lavoro stagionale: i datori di lavoro lamentano la mancanza di personale mentre chi cerca un impiego denuncia stipendi troppo bassi e tutele negate. Secondo alcuni, questo fenomeno va avanti progressivamente da anni. E oggi i due anni di pandemia hanno solo peggiorato una situazione che richiederebbe riforme importanti. Abbiamo risposto ad alcune offerte di lavoro per la stagione estiva su gruppi “Offro/Cerco lavoro” su Facebook per avere un quadro chiaro delle richieste dei datori di lavoro. Poi abbiamo analizzato la situazione attraverso il racconto di chi questo settore lo conosce bene.
Le offerte di lavoro
Su Facebook sono tanti i gruppi aperti dove datori di lavoro e lavoratori entrano in contatto per offrire e trovare un impiego. Abbiamo contattato con un messaggio privato diverse persone che cercavano personale per il periodo estivo. Fingendo di essere interessati a ciò che proponevano, abbiamo chiesto loro alcuni dettagli in più: retribuzione, tipo di contratto, durata e orari di lavoro. La prima persona a cui ci siamo rivolti ci ha proposto un impiego da addetto/a pulizie in casa vacanze. Abbiamo parlato degli orari, 8 ore al giorno flessibili (esclusa la sera) con giorno libero settimanale, e di retribuzione, 1.000 euro al mese. Quando però abbiamo chiesto che tipo di contratto ci sarebbe stato offerto, e quindi anche quali tutele avremmo avuto, non abbiamo ottenuto risposta. Chi ci stava offrendo il lavoro non aveva a sua volta un contratto regolare.
Anche in una seconda occasione ci è capitata una situazione simile. Cercavano un/a cameriere/a al piano per i mesi estivi in un albergo in una zona balneare molto nota: vitto e alloggio garantito, orario dalle 7 alle 16.30 con giorno libero. Quando però abbiamo chiesto più informazioni sulla retribuzione, la persona a cui ci siamo rivolti ha risposto in maniera evasiva, dicendoci che di stipendio avremmo dovuto parlare non con lei e in un’occasione successiva. Ci ha molto colpito il modo sbrigativo e poco chiaro con cui è stata trattata la questione: conoscere il livello di retribuzione è sicuramente un dettaglio che permette a chi è alla ricerca di un lavoro di valutare o meno un’offerta.
Va detto, però, che non abbiamo incontrato solo annunci poco limpidi: in un altro caso, ci sono state date in modo chiaro tutte le informazioni che avevamo richiesto. La proposta prevedeva contratto regolare, 40 ore settimanali di lavoro, 1.200 euro lordi di stipendio con vitto e alloggio.
Le difficoltà del settore
La questione del lavoratore stagionale che manca è tornata prepotente quest’anno, con la ripresa del settore turistico dopo i due anni di pandemia. Eppure la richiesta c’è. Sugli stessi gruppi dove siamo andati a cercare le offerte abbiamo trovato anche persone che da anni lavorano nel settore e che anche quest’estate cercavano un impiego. Quello che però questi lavoratori hanno descritto sono orari e condizioni di lavoro massacranti con retribuzioni che, considerato che si tratta di lavori da svolgere per 3 o 6 mesi, non bastano in alcun modo a coprire il restante periodo di inattività. Ma come ci spiega B., impiegata come addetta alla ricerca di personale in un’agenzia per il lavoro (e che preferisce rimanere anonima), “il coronavirus ha rappresentato una cesura rispetto al passato, soprattutto in alcuni settori. Turismo e ristorazione hanno condizioni di lavoro molto dure che prevedono orari scomodi. A questi periodi di grande attività ne seguono altri di totale inattività”.
Lo stop imposto al settore nei due anni passati ha portato molti lavoratori stagionali a rivalutare seriamente la propria presenza nel settore degli stagionali. “Molti hanno dovuto ricollocarsi. Quella che all’inizio non è stata una scelta, per il lavoratore si è rivelata una cosa positiva: tanti hanno trovato impiego in altri settori con il welfare aziendale, senza straordinari, una retribuzione fissa e hanno preferito rimanere in quella situazione”, ci spiega B., che aggiunge: “Noi abbiamo organizzato corsi di formazione a cui queste persone hanno partecipato numerose. Ci è capitato spesso di ricollocare persone che lavoravano anche a nero in questo settore da tantissimi anni. Durante i lockdown, chi non aveva un contratto non ha potuto percepire nulla dallo Stato. È anche per questo adesso che le persone adesso fanno molta più attenzione una regolarizzazione contrattuale“.
Per cercare di rendere il settore più competitivo, secondo B., il cambiamento dovrebbe partire non soltanto da una riforma delle contrattazioni collettive, ovvero degli accordi stipulati tra associazioni di categoria e datori di lavoro che stabiliscono i parametri cui poi dovranno attenersi i contratti di lavoro individuali, per cercare di ottenere condizioni contrattuali più vantaggiose. “In molti casi noi facciamo molta più fatica a far cambiare mentalità al singolo datore di lavoro e a convincerlo a concedere ai lavoratori dei benefit che incentiverebbero le persone a rimanere in questo settore, soprattutto nelle aziende più piccole”, spiega.
Una riforma necessaria
Le parole di B. vengono confermate anche dal presidente dell’Associazione nazionale lavoratori stagionali Giovanni Cafagna. “Inspiegabilmente, soprattutto quest’anno, è esplosa la polemica, ma questo processo è iniziato anche prima della pandemia. Il motivo iniziale per cui ci si allontana da una carriera nel mondo del lavoro stagionale è stato il dimezzamento del sussidio del 2015“, spiega ad upday Cafagna. “Fino ad allora, se per sei mesi venivamo sfruttati, durante gli altri sei veniva garantito il sussidio di disoccupazione. Si era venuto a creare questo equilibrio che conveniva sia al lavoratore che al datore di lavoro, ma anche allo Stato perché reggeva questo sistema. In alcune località esiste solo il lavoro stagionale, non ci sono alternative”. A tutto questo si è aggiunta la pandemia, che ha ridotto il periodo del contratti, prosegue il presidente: “Dal 2020 si lavorava sei mesi, l’anno scorso chi è stato fortunato invece ne ha fatti quattro. A quel punto, chi c’è riuscito ha cambiato settore e ha trovato una sistemazione migliore. Anche io, fino al 2020, facevo le stagioni: poi mi sono trovato con l’azienda che non ha potuto assumere e ho inventato un nuovo lavoro, ho aperto un Caf patronato. Ora ho uno stipendio fisso tutti i mesi e sto benissimo”.
Si tratta però di una tendenza non solo italiana, ma mondiale. Come si legge in un articolo del Post, “in molti altri Paesi del mondo, dove non esiste il reddito di cittadinanza, gli imprenditori non riescono più a trovare personale, al punto che molte aziende hanno iniziato a proporre offerte economiche considerate irrinunciabili”.
Secondo Cafagna, quello che ha causato la crisi è un diffuso pregiudizio sul lavoro stagionale: “Molti credevano fosse una pacchia e questo ha punito la categoria. Ora sta venendo fuori che non è così divertente, ma che si tratta di un lavoro massacrante. Quando lavoravo nel settore io perdevo anche 10-15 chili a stagione. Quest’anno ho notato che tra i nostri iscritti molti sono riusciti a ottenere il giorno libero a settimana, ma non è mai stato così: ho sempre lavorato 7 su 7“, osserva. “Prima era facile trovare lavoro: c’era tanta offerta e tanta richiesta. Molte aziende sono di piccole dimensioni quindi la contrattazione era sempre a ribasso. A noi però conveniva perché tanto avevamo durante gli altri 6 mesi il sussidio e la possibilità di riprenderci. Lavoravo 6 mesi, guadagnavo 9-10mila euro a stagione, a cui aggiungevo quattromila euro di sussidio: all’anno prendevo 14mila euro, che è una cifra bassa ma sufficiente per costruire una famiglia. Ora la situazione non è più questa e quindi conviene trovare lavoro in altri settori. Non è così facile ma molte persone stanno cercando soluzioni alternative“.