Il dibattito sulla cittadinanza ai ragazzi migranti o figli di migranti che frequentano le scuole italiane riaccende i riflettori sulle difficoltà di chi vive nel nostro Paese da eterno straniero. Il racconto, ad upday, di un ragazzo iraniano che in Italia ha frequentato tutti i cicli scolastici e ora si appresta a diventare padre di una bambina italiana: ma sulla carta lui ancora non lo è.

La discussione sullo ‘ius scholae’ approdata alla Camera lo scorso 29 giugno ha riportato l’attenzione sui diritti di molti bambini e ragazzi che vivono e studiano nel nostro Paese senza esserne cittadini. La proposta, che sta infiammando il dibattito politico, intende riconoscere il ruolo della scuola con la possibilità, per i minori stranieri nati in Italia o arrivati entro i 12 anni, di richiedere la cittadinanza dopo aver frequentato almeno 5 anni di scuola.

Secondo gli ultimi dati del Ministero dell’Istruzione, il 10,3% della popolazione scolastica è di origine migratoria. Nell’anno scolastico 2019/2020 erano 877mila gli studenti di cittadinanza non italiana. Di questi, un’ampia maggioranza è costituita da studenti di seconda generazione, cioè bambini e giovani nati in Italia da genitori non italiani.

Ma cosa significa vivere in un Paese dalla nascita o frequentarne le scuole senza esserne riconosciuto come cittadino? Ne abbiamo parlato con S.K., 27enne, arrivato in Italia dall’Iran quando aveva 4 anni.

Ho frequentato le scuole qui, dalla materna all’istituto professionale”, racconta ad upday. Dice di non essersi “mai sentito straniero perché ho sempre vissuto in una comunità di persone che non mi ha fatto sentire tale”. “Da ragazzino – ricorda – c’erano quelli che mi davano del ‘talebano’, mi dicevano ‘tu sei straniero, quello che dici non conta nulla’. Non ho mai avuto amici solo italiani o solo stranieri, ho avuto amici. E anche quelli che si professavano di tendenze politiche razziste, mi seguivano come fossi il loro migliore amico, senza capire, di fatto, le idee nelle quali dicevano di riconoscersi”.

I problemi legati alla mancanza di cittadinanza, ci spiega, si riflettono “sui viaggi, perché il passaporto iraniano vale meno di zero” e, ora che è maggiorenne, anche “sul senso di impotenza che si ha rispetto alle decisioni politico-sociali, quindi sull’impossibilità di votare”. S.K. non ha ancora ottenuto la cittadinanza italiana, la pratica si è interrotta e forte è il rischio di rigetto perché, durante gli anni di pandemia, ha perso uno dei requisiti per ottenerla. Con l’attuale normativa, infatti, i cittadini stranieri sono tenuti a dimostrare di avere un determinato reddito, sotto il quale la cittadinanza viene loro negata, indipendentemente da quanti anni abbiano vissuto nel nostro Paese.

Ora per lui non essere cittadino italiano implica anche problemi a livello finanziario: “In banca sono sottoposto a continue verifiche perché, da cittadino iraniano, pensano che io ricicli denaro”, racconta. Nonostante gli ostacoli a livello pratico, S.K. non sente di aver avuto particolari difficoltà, ma chiarisce che ad aiutarlo è stato soprattutto il suo aspetto fisico, che non lascia immediatamente indovinare le sue origini: “Non ho sofferto molto la discriminazione perché di pelle sono chiaro ed è difficile qualificarmi come straniero a vista, e anche la dialettica mi ha aiutato. Ma ho avuto amici che, un po’ più scuri di pelle e con un italiano non perfetto, hanno avuto mille problemi a trovare lavoro e a farsi accettare dal prossimo, dalla banca fino al Comune, ovunque”.

Essere cittadino, per lui che a breve diventerà padre di una bambina italiana senza essere italiano, con tutti i problemi burocratici del caso, significa avere “maggiore tranquillità quando si viaggia, poter partecipare alla vita sociale e politica del Paese, fatto importante per qualsiasi cittadino”. Ritiene lo ‘ius scholae’ “necessario, fondamentale” perché, spiega, “chi decide di fare un ciclo di studi qui, di vivere qui e di fare sua questa cultura, dovrebbe avere la cittadinanza italiana”. Secondo S.K., il riconoscimento servirebbe anche per responsabilizzare chi interagisce con loro: “Se dai agli altri ragazzini un appiglio per trovare un punto debole nella tua persona, questi se ne approfitteranno. Se invece sei italiano come loro, gli è difficile attaccarsi a questo e rimarcare una differenza”.

“È importante avere la cittadinanza – conclude – per poterti identificare, perché quando scegli dove vuoi vivere scegli un luogo, una cultura, usi e costumi e non è bello ricordarsi sempre che, su carta, non sei di quel posto”.

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