La politica cerca di tranquillizzare gli animi, con il PD di Matteo Renzi a chiedere al governo di prendersi sei mesi in più per riflettere, ma a Palazzo Chigi la strada sembra essere stata imboccata: dal 2019, l’età pensionabile per uomini e donne salirà a 67 anni, +5 mesi rispetto ai criteri previsti ad oggi, dopo che l’Istat ha segnalato che la longevità media degli italiani risulta cresciuta. Sulla base di una legge del 2010 voluta dall’allora governo Berlusconi, l’età per chiedere la pensione di vecchiaia sale automaticamente con l’aumento della longevità rilevata dalla statistica ufficiale, in modo da equilibrare la spesa previdenziale nel medio-lungo termine. E, tuttavia, da allora c’è stata la riforma Fornero ad avere reso più restrittivi i criteri ordinari per uscire dal lavoro, con l’assegno di vecchiaia staccato solamente al raggiungimento di 66 anni e 7 mesi (le donne ci arriveranno proprio nel 2019, quando si beccheranno anche i 5 mesi in più di cui sopra). I nati nel 1980, poi, alla pensione ci arriveranno a poco meno di 70 anni.

Formalmente, saremmo tra i paesi più severi al mondo sulle pensioni, dato che la media UE risulta ancora di 64,4 anni per gli uomini e 63,4 per le donne. E che dire della Germania, che continua a mandare i suoi lavoratori in pensione “già” a 65 anni e 7 mesi? Eppure, quando si sposta l’attenzione sui dati reali, si scopre che mediamente gli italiani continuerebbero ad andare in pensione con un paio di anni di anticipo rispetto ai colleghi residenti nelle altre economie avanzate (area OCSE): a 62,5 anni gli uomini contro una media di 64 e a 62 le donne contro 63,1.

Insomma, possiamo lamentarci quanto vogliamo, ma pare che i danni ci raccontino una verità diversa. Ma, anzitutto, che differenza passa tra età pensionabile ufficiale e quella effettiva? La prima indica l’età anagrafica alla quale si può richiedere la pensione di vecchiaia, ma esistendo scappatoie per lasciare il lavoro prima (vedasi pensioni di anzianità, Ape social, etc.), nei fatti i lavoratori italiani vanno in quiescenza prima di quanto saremmo portati a pensare basandoci solo sulla regola principale. Ovviamente, non tutti possono farlo, essendo consentito derogare all’età pensionabile solo in presenza di requisiti, anch’essi resi più restrittivi negli ultimi anni. Se fino alla riforma Fornero, ad esempio, bastavano 36 anni di contributi e 60 anni di età o 35 anni di contributi e 61 di età per andare in pensione, adesso servono 42 anni e 10 mesi per i lavoratori dipendenti maschi e 41 anni e 10 mesi per le donne, indipendentemente dall’età anagrafica. E gradualmente tale requisito salirà innalzato a 46 anni e 3 mesi e 45 anni e 3 mesi rispettivamente dal 2049.

La devastante riforma Brodolini

Se siete inferociti contro i politici italiani, fate bene, ma dovreste prendervela non tanto con quelli attuali, bensì con i loro predecessori, quelli che “un tempo c’era più serietà”. Ad essere precisi, l’inizio della distruzione della previdenza italiana si ha alla fine degli anni Sessanta, quando anche l’Italia viene colta dallo spirito del ’68, seguendo l’ubriacatura in stile Woodstock, che ha devastato i nostri conti pubblici, lasciandoci in eredità un paese meno equo e più indebitato. In teoria, i sessantottini al potere avrebbero ambito all’esatto opposto. Ebbene, un governo sopra ogni altro reca con sé responsabilità storiche ben precise sul tema, il primo guidato dal premier Mariano Rumor e retto da una maggioranza di centro-sinistra, ovvero DC, PRI e PSU. Quest’ultimo acronimo sta per Partito Socialista Unificato, che ottenne ben sette ministri e la vice-presidenza del consiglio, tra cui quello al Lavoro e Previdenza Sociale con Giacomo Brodolini.

L’esecutivo così composto restò in carica per appena 9 mesi tra la fine del ’68 e l’agosto del ’69, ma più che abbondanti per provocare enormi danni alle casse dell’Inps, ovvero per i futuri lavoratori. Fino ad allora, sapete che l’età pensionabile effettiva in Italia superava i 65 anni, nonostante l’aspettativa media di vita non superasse gli 80 anni? In pratica, si andava in pensione dopo e si moriva prima. E si tenga conto che i lavoratori di quel tempo avevano patito ben altri sacrifici, avendo vissuto le rovine fisiche e morali della guerra e svolgendo occupazioni mediamente ben più pesanti di quelle odierne. Poi, appunto, arrivarono Rumor e i suoi ministri socialisti, quelli che avrebbero dovuto portare una maggiore dose di uguaglianza sociale in Italia. E che fecero? Introdussero per iniziare le baby pensioni, dando la possibilità alle lavoratrici del Pubblico Impiego di ritirarsi con appena 14 anni 6 mesi e 1 giorno di contributi versati, compresi quelli figurativi (malattia, maternità, etc.). Per intenderci: eri stata assunta a 20 anni? A meno di 35 anni potevi fare richiesta di pensione.

Previdenza italiana scassata dai ministri del ’68

Per il resto dei lavoratori statali furono previste condizioni simili, così come per i lavoratori del settore privato, che potevano andare in pensione con 25 anni di contributi. Risultato? L’età pensionabile effettiva crollò, man mano che la riforma coinvolse i futuri pensionati, scendendo a un minimo di 57 anni nel 1994, un anno prima della necessaria riforma Dini. E non è finita: Brodolini eliminò il metodo contributivo, quello che legava i contributi versati all’importo dell’assegnò, introducendo quello retributivo, con il quale per ogni anno di contributi versati si otteneva il 2% della media salariale degli ultimi 5 anni di lavoro. In più, le pensioni vennero agganciate automaticamente all’inflazione e alla crescita dei salari. Nel 1992, quando si iniziò a intervenire per correggere tali distorsioni, si stimò che per il solo adeguamento automatico degli assegni, la spesa pensionistica sarebbe esplosa al 24% al 2025 in Italia.

Detto in maniera esplicita, se non vi fosse stato un governo devastante, come il primo di Rumor, avremmo avuto una previdenza solida e forse quasi alcun bisogno di riforme, perché le regole post-belliche erano state ben più serie di quelle che seguirono. Grazie anche a una popolazione relativamente ancora giovane, nel 1980 l’Italia aveva una spesa previdenziale inferiore al 9% del pil, mentre in Germania si aggirava sul 10,5%. Tuttavia, nei 35 anni successivi, mentre le pensioni tedesche hanno inciso sempre nella stessa misura sui conti federali, il peso di quelle italiane è praticamente raddoppiato. A pagare pegno sono i politici di oggi, che si trovano nella condizione difficilissima di dovere correggere una previdenza in pieno processo di invecchiamento della popolazione, con una spesa elevatissima quasi del tutto intoccabile (si vedano gli strepiti sui cosiddetti “diritti acquisiti”) e una platea di lavoratori molto arrabbiati dalla prospettiva di dovere restare occupati sempre più a lungo. Ringraziate i signori Rumor e Brodolini, che svendettero il futuro dell’Italia per un facile consenso immediato.